Ho letto un articolo illuminante sui modelli animali, uscito sul numero di dicembre di
Nature Reviews - Microbiology: si tratta di
Animal models for HIV/AIDS research, scritto da
Theodora Hatziioannou e
David Evans. La Hatziioannou è una virologa che insegna all'
Aaron Diamond AIDS Research Center della Rockefeller University, New York; Evans, invece, insegna presso il
Dipartimento di microbiologia e immunologia di Harvard.
In questo articolo si parla molto brevemente di gatti (e lascio la questione dell'FIV da trattare un'altra volta) e diffusamente, invece, di topi e di scimmie.
Poiché dei diversi modelli di topi umanizzati ho già raccontato nel
thread dedicato a Paula Cannon, ho pensato di concentrarmi oggi sulle scimmie, perché da quel che è spiegato nel lavoro di Hatziioannou ed Evans si capisce bene quanto sia piena di ostacoli la strada che dai sempre più sofisticati modelli scimmieschi dell'HIV/AIDS porta a cure efficaci negli uomini.
Invece di dilungarmi sugli innumerevoli modelli e sulle differenze per esempio fra i cercocebi mori e i cercopitechi gialloverdi (sooty mangabeys e african green monkeys - ospiti naturali dell’SIV) e i macachi (ospiti NON naturali, che presentano al loro interno variazioni non di poco conto nelle reazioni al virus), mi sembra utile puntare l’attenzione soprattutto sui macachi rhesus, di cui si tratta in questo thread.
Spero che, con questo, risulti anche almeno in parte spiegata la mia diffidenza nei confronti dei toni trionfali con cui ci viene regolarmente presentata ogni ricerca di Andrea Savarino.
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Gli ospiti naturali dell’SIV, grazie a millenni di convivenza con questo virus, in genere non sviluppano l'immunodeficienza e gli altri disturbi causati dall’infezione. Negli ospiti naturali si hanno di solito alti livelli di replicazione virale, rapido ricambio dei linfociti produttivamente infetti (compresa una grave distruzione dei CD4 delle mucose) durante la fase acuta dell’infezione e immunità adattiva. Ma tutto questo non comporta né attivazione immunitaria cronica, né perdita progressiva dei CD4 delle mucose o del sangue periferico, né distruzione del tessuto dei linfonodi.
Inoltre, mentre l’infezione da HIV-1 e da SIV dei macachi comporta una grave deplezione dei CD4 memoria centrali, l’SIV dei sooty mangabeys infetta di preferenza i CD4 memoria effettori e si ritiene che questa differenza del tropismo cellulare dell’SIV nei suoi ospiti naturali, che fa sì che risparmi i CD4 memoria centrali, possa essere un fattore importante che contribuisce al basso livello di attivazione immunitaria e di perdita dei CD4.
Gli ospiti naturali sono dunque studiati da persone come Guido Silvestri per capire come “copiare” o “traferire” le loro caratteristiche favorevoli negli esseri umani. Sono inutili come modelli patogenetici, ma servono come confronto fra infezioni patogenetiche e non patogenetiche e il modello dei sooty mangabeys è interessante anche perché è stata proprio la trasmissione cross-specifica dell’SIVsmm a dare origine all’HIV-2, che infetta gli uomini e all’SIVmac, che infetta i macachi.
Quando queste scimmie (i macachi asiatici più che gli africani), che non sono ospiti naturali dei lentivirus dei primati, vengono infettate con certi ceppi di SIV, sviluppano alte viremie, progressiva perdita dei CD4 e infezioni opportunistiche. Questo rende la patogenesi dell’SIV simile a quella dell’HIV-1 ed è per questa ragione che i macachi rhesus, di origine indiana, sono il modello scimmiesco più usato dell’infezione da HIV.
In genere, si usano due ceppi virali: l’SIVmac251 (quello utilizzato da Savarino) e l’SIVmac239. Questi due ceppi furono isolati inizialmente in macachi indiani (è per questo che sono particolarmente adatti per infettare questi animali) e causano alte viremie con minime variazioni da un animale all’altro.
A volte però, data la rarità dei macachi di origine indiana, si usano nelle sperimentazioni macachi provenienti dalla Cina o dalla Birmania. Ma in questi animali la patogenesi di ceppi virali sia dell’SIV sia dell’SHIV (in particolare SHIV89.6P) che replicano molto attivamente nei macachi rhesus indiani è molto diversa: per esempio, anche se le differenze nei picchi di viremia sono piccole, i set-point virali sono molto più bassi e questo si riflette su un più alto numero di CD4 e su una migliore sopravvivenza delle scimmie di origine cinese.

In modo simile a quanto avviene con la replicazione dell’HIV-1, la replicazione attiva dell’SIV comporta ricambio e perdita progressiva dei CD4, soprattutto nella mucosa gastro-intestinale. Ma la rapidità di progressione della malattia nei macachi è molto maggiore che negli esseri umani (circa 1-2 anni per evolvere in AIDS, rispetto agli 8-10 nelle persone che non ricevono la ART).
I geni del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) dei macachi rhesus sono altamente polimorfici e codificano per delle molecole che presentano dei peptidi derivati dal virus sulla superficie delle cellule infette per renderle riconoscibili ai linfociti T. Questa caratteristica ha un effetto importante sulla capacità del sistema immunitario di controllare l’infezione da SIV. Se si confrontano i geni dell’MHC dei macachi con i geni umani dell’HLA (Human leukocyte antigen – la versione umana dell’MHC), si vede che ci sono differenze non solo nella sequenza, ma anche nel numero di copie e queste differenze comportano reazioni ai due tipi di virus non sempre sovrapponibili.
Per esempio, esistono nei macachi come negli uomini degli alleli che si associano a un miglior controllo della replicazione virale e che comportano grandi riduzioni delle viremie durante la fase cronica. A causa dei loro effetti protettivi, se questi alleli sono sovra-rappresentati nei gruppi di macachi sperimentali o di controllo, si possono completamente fraintendere i risultati delle sperimentazioni, soprattutto quando gli studi vengono fatti su piccoli numeri (come in genere accade, dato anche il costo dei macachi e la difficoltà di gestirli negli stabulari).
L’incapacità dell’HIV-1 di replicarsi nei macachi – dovuta almeno in parte a dei blocchi cellulari imposti da fattori di restrizione dell’ospite come la TRIM5α, l’APOBEC3G, e forse la teterina – ha fatto sì che venisse utilizzato l’SIV, piuttosto che l’HIV-1, per sviluppare dei modelli di AIDS nei primati non umani.
I ceppi di SIV usati per i modelli patogenetici sono derivati tutti dall’infezione – accidentale o sperimentale – di macachi con l’SIVsmm (il virus dei sooty mangabeys).
Di conseguenza, questi ceppi sono diversi dall’HIV-1 sotto molti e importanti aspetti. Per esempio, l’SIVsmm e l’SIVmac non hanno il gene vpu, mentre hanno il gene vpx, che manca nell’HIV-1. Inoltre, HIV-1 e SIVsmm/SIVmac hanno solo il 53% di nucleotidi identici e differiscono nell’organizzazione delle ORF (Open Reading Frame o sequenze di DNA/RNA codificante). Quindi, anche se sono stati creati diversi SIV e SHIV ricombinanti e si è visto che hanno proprietà biologiche differenti, questi virus sono solo dei surrogati di modelli dell’HIV-1.


Senza entrare nei dettagli dei diversi virus dell’immunodeficienza delle scimmie, descritti con dovizia di particolari da Hatziioannou ed Evans, ricordo soltanto che l’SIVmac239 è un clone patogenetico che, attraverso diversi passaggi storici, è legato all’SIVmac251 e, come la maggior parte degli isolati di HIV-1, entrambi questi SIV usano il CCR5 come co-recettore, si replicano prevalentemente nei CD4 memoria ed esprimono delle glicoproteine Env che sono resistenti agli anticorpi neutralizzanti.
La distanza genetica fra l’SIVmac239 e il 251 è paragonabile alla distanza genetica fra isolati di HIV-1 del medesimo sotto-gruppo.
Nonostante il fatto che lo studio dell’infezione da SIV nei macachi abbia suggerito intuizioni importanti sulla patogenesi dei lentivirus, sussistono fra SIV e HIV-1 differenze tali che il modello dei macachi non è utilizzabile in molte ricerche. Per esempio, l’SIV non è sensibile a molti dei farmaci che inibiscono la proteasi, la trascrittasi inversa e l’integrasi dell’HIV-1.
Inoltre, anche se la maggior parte degli isolati di HIV-1 e di SIV usano il CCR5, gli altri co-recettori usati da questi virus possono divergere: mentre l’HIV-1 può acquisire la capacità di servirsi del CXCR4, raramente l’SIV ci riesce; ma, in compenso, sa usare dei co-recettori alternativi, che l’HIV-1 non usa. Queste differenze nell’uso dei co-recettori possono complicare non poco la sperimentazione di certi inibitori dell’ingresso del virus nei macachi infetti da SIV.
Per superare queste limitazioni, si sono cercati di sviluppare degli SHIV capaci di replicarsi e di causare la malattia nei macachi. Ma anche qui la questione del tropismo non è facilmente eludibile perché, a fronte degli SIV che sono prevalentemente R5-tropici e si replicano soprattutto nei CD4 memoria, molti SHIV fortemente patogeni si sono evoluti per usare prevalentemente il CXCR4. Questo comporta un’espansione del tropismo cellulare che comprende i CD4 naive.
Quindi, mentre l’SIV infetta soprattutto i linfociti CCR5 positivi, causando una grave deplezione dei CD4 memoria nelle mucose, questi SHIV possono infettare dei linfociti che sono CXCR4 positivi e CCR5 negativi, cioè la maggior parte dei CD4 naive che stanno nel sangue e nei linfonodi. Il rapido crollo del numero di queste cellule è la probabile causa dello scarso sviluppo di CD4 effettori, che servono per limitare la replicazione del virus. E questo potrebbe spiegare perché negli animali infettati da questi tipi di virus sovente la malattia progredisca senza che si riescano a creare degli anticorpi specificamente diretti contro il virus.
Per cercare di risolvere il problema dell’insensibilità a molti antiretrovirali che funzionano contro l’HIV-1 sono state create diverse forme ricombinanti di SIV o SHIV. Così ora si possono utilizzare, per esempio, dei virus che contengono le sequenze per codificare la trascrittasi inversa dell’HIV-1 (RT-SHIV) e sono in sviluppo degli SHIV che esprimono la proteasi dell’HIV-1 o una combinazione di HIV-1 RT e di Env.
Grazie alla relazione filogenetica stretta fra macachi e uomini, molti geni dei macachi che controllano la risposta immune all’SIV sono simili ai geni umani che controllano la risposta immune all’HIV-1. Tuttavia, proprio come accade fra gli esseri umani, anche fra un macaco e l’altro possono esserci grandissime differenze nel decorso dell’infezione, sia essa da SIV o da SHIV. Questa caratteristica dei modelli dei macachi è un’arma a doppio taglio: da un lato, la variazione genetica fra gli animali dà l’opportunità di riprodurre attraverso il modello aspetti specifici delle interazioni fra ospite e virus (ad esempio il ruolo degli alleli protettivi nel controllo dell’infezione); ma, dall’altro, la diversità genetica può complicare enormemente le ricerche in cui vengono usati pochi animali.
In conclusione, i modelli dei primati non umani sono una meraviglia (anche quello creato da Savarino, che è riuscito a sviluppare un modello di completa soppressione della viremia, come riconoscono tre grandi esperti come Cristian Apetrei, Ivona Pandrea e John Mellors). Però soffrono ancora di limitazioni, che non è detto che siano completamente superabili, perché sono in parte intrinseche ai modelli stessi.