L'autoBiografia come indicazione terapeutica

La condizione di sieropositività, la malattia da HIV e relativi problemi, di salute e no.
analkoliker
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Re: L'autoBiografia come indicazione terapeutica

Messaggio da analkoliker » venerdì 26 agosto 2011, 10:18

stealthy ha scritto:Ciao analkoliker, ieri sera ti avevo fatto una proposta in pvt, potresti gentilmente dare riscontro al mio messaggio? Grazie.
Ti ho risdposto due volte, controlla la posta!



analkoliker
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Re: L'autoBiografia come indicazione terapeutica

Messaggio da analkoliker » venerdì 26 agosto 2011, 18:24

Le origini di una passione

Nasco quarantadue anni fa nell’umida e piovosa Bruxelles da genitori poco più che analfabeti e con l'imperdonabile aggravante della povertà, quella stessa che li portò nella pancia della terra ad estrarre carbone.
Papà faceva il minatore, la mamma colazione col Martini.

Fra il ’40 ed il’ 60 l’Italia conobbe una seconda ondata di migrazione, dopo quella per l’America degli anni venti. Nella seconda ondata furono migliaia gli italiani, soprattutto meridionali, che con pala e piccone ritrovarono un po’ di dignità e speranza per il futuro a decine di metri sotto terra in un paese che li chiamava con ironia e disprezzo maccheronì (da maccheroni, ‘mangiatori di pasta’). Il disprezzo lo si comprende meglio se si pensa che i piatti nazionali in Belgio sono le zuppe e le minestre, la pasta all’italiana era paragonabile al riso alla cantonese quando negli anni ’80 in Italia apparvero i primi ristoranti cinesi.
Stazione nord, periferia.
Forza lavoro nelle miniere, umanità ai confini.
Il governo belga in quegli anni dirottò gran parte dei lavoratori stranieri in un vecchio quartiere di fatiscenti edifici liberty, conosciuto anche per le puten, le escort (edit automatico) in vetrina.
Certo gli italiani non potevano che ringraziare: casa, caffè e escort (edit automatico), tutto sotto casa.
Ai figli erano garantiti i diritti alla sanità e all’istruzione; il cortile della ricreazione era diviso in due, esattamente come il paese; da una parte gli italiani, dall’altra i belgi ed i fiamminghi, storicamente nemici ma che davanti allo straniero mangiatore di maccheroni ritrovavano l’unità.
Per Stefano, straniero in patria, quell’ostilità era difficilmente comprensibile; non riusciva a capire perché lui, belga, dovesse difendersi in casa sua.
Di certo non ci mise molto ad attrezzarsi; da prima aveva subito, chiuso in un silenzio riflessivo, insulti, sputi, schiaffi, umiliazioni irraccontabili, soprattutto da parte degli adulti. Poi aveva cominciato a costruirsi, nell’officina della sua anima, una corazza spessa e resistente. Aveva imparato ad usare le mani per darle, era diventato un esperto sputatore e il suo sguardo divenne duro come quello di un guerriero determinato e pronto a vender cara la pelle.
Ma Stefano sotto la corazza aveva pur sempre sei anni; lì al sicuro da ogni offesa, viveva rintanato un bimbo vivace, intelligente e timido che si interrogava ossessivamente chiedendosi
“Perché?”. Spesso piangeva, ma per molti anni da quella corazza non sarebbe uscita neppure una lacrima.
Imparò a non chiedere più nulla agli adulti, era troppo piccolo per trovare le ragioni di tanto disordine; quello era il momento di difendersi, in futuro la vita gli avrebbe dato le risposte che attendeva.

Avevo cinque anni quando le condizioni economiche della mia famiglia originaria suggerirono un affidamento temporaneo che col tempo si sarebbe tradotta in un'adozione.
Poi un giorno vidi mamma arrivare dal vialetto della casa. Io ero in giardino a giocare e la prima cosa che urlai dentro fu: “No! Non adesso. Non ti voglio mamma. Non ti voglio vedere.”
Mamma aveva trentasei anni, a me appariva vecchia, consumata, pesante, ingombrante.
Era chiaro che veniva a riportarci a casa. A distanza di trentasette anni quello resta il ricordo più nitido della mia infanzia.
La detestai, ricordo il cappotto che indossava, le arrivava sotto le ginocchia, e le scarpe impolverate di terra che raccontavano chiaramente della miseria che ci stava attendendo.
La famiglia affidataria era benestante ed in giardino c'era una bicicletta per ogni bambino della casa. Io avevo la mia.
Quando la mamma ci portò via, quella bicicletta non me la sono portata via ed ho passato la vita a rivolerne una, a rivolere quella bicicletta.
“La bicicletta non ha cassetti, i sogni li appoggi direttamente sui pedali”.
A diciassette anni addolcivo la tristezza viaggiando su un vecchio atlante. Immaginavo di pedalare lungo le rive del fiume Po partendo da Torino e poi via via verso la pianura Padana fin dove il fiume si perde nel mare.
Oggi non m’interessa sapere perché in tutti questi anni non mi sia deciso a viaggiare in bicicletta nel mondo che sognavo piegato sull’atlante, quel che conta è che ora sono qui a riprendermi i sogni che erano miei.

Tratto dal libro: " Via della casa comunale n°1 " Ediciclo editore
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Re: L'autoBiografia come indicazione terapeutica

Messaggio da analkoliker » domenica 28 agosto 2011, 22:41

Mi sposto sulla spazio Pub per non creare dispersione. E poi mi sento maggiormente a mio agio in un Pub-e
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