R. Jefferys: L’odissea dei vaccini terapeutici per l’HIV
Inviato: giovedì 12 aprile 2012, 12:57
Non so bene in quale sezione del forum collocare questo thread. Scelgo “Verso una cura”, perché spero di dare un seguito alla discussione, magari postando una serie di studi recenti sui vaccini terapeutici.
Ricordate Richard Jefferys? È l’attivista newyorkese di TAG (Treatment Action Group) che accusò la giornalista negazionista Celia Farber di essere una raccontaballe e di avere per anni spacciato argomentazioni fraudolente per diffondere la teoria completamente screditata di Duesberg, secondo cui sono l’uso di droghe e la malnutrizione – e non l’HIV – a causare l’AIDS. Bene, Ms Farber – forse dopo qualche seduta di troppo nella scatola della vita ad ascoltare il magico suono dell’amore – ebbe l’ispirazione di querelarlo per diffamazione e – ohibò, ohibò – PERSE LA CAUSA (una bella intervista a Richard si trova in quackdown.info: How Celia Farber tried to sue an AIDS activist - and lost).
Ora Richard ha scritto per TAG un chiaro ed esauriente lavoro sui vaccini terapeutici. La versione completa è tradotta qui sotto; se invece ne volete un riassunto ad opera di Tim Horn, potete leggerlo qui: http://www.aidsmeds.com/articles/hiv_th ... 2220.shtml.
The Odyssey of Therapeutic Vaccines for HIV
Nei primi tempi dopo la scoperta dell’HIV a metà anni ’80, dominava l’incertezza su come il sistema immunitario rispondesse al virus. All’inizio, si pensava che il tempo fra il momento dell’infezione e lo sviluppo di una immunodeficienza grave e della malattia fosse un periodo di inattività virale o di latenza. In questo contesto, parve logico ipotizzare che forse una vaccinazione potesse essere utilizzata per sostenere la risposta immunitaria all’HIV e quindi rimandare, o addirittura evitare, lo sviluppo della malattia.
Ma i primi tentativi di raggiungere questo obiettivo rapidamente fecero della ricerca di un vaccino terapeutico oggetto di controversia, stendendo un velo iniziale sul campo, perché ogni candidato fallì nel dimostrare una qualche efficacia. Inoltre, il razionale scientifico dell’approccio si evolse, quanto più si veniva a conoscenza della patogenesi dell’infezione da HIV e dei tipi di risposte immunitarie che possono essere efficaci – e inefficaci – nel controllare il virus. Dopo un periodo in cui l’entusiasmo per la prospettiva dei vaccini terapeutici era svanito, la recente rinascita dell’interesse per una ricerca che aspira a curare l’infezione da HIV ha offerto nuove ragioni per perseguire il loro sviluppo.
STORIA
La controversia riguardo la ricerca iniziale di una vaccinazione terapeutica iniziò a metà anni ’80, quando uno scienziato francese, Daniel Zagury, ottenne un vaccinia virus dai National Institutes of Health, che era stato modificato in modo da contenere alcune componenti dell’HIV, e si mise a testarlo sia su persone con HIV sia su persone non infettate a Parigi e in Zaire, senza un’adeguata approvazione normativa (il costrutto del vaccinia virus era stato creato solo allo scopo di condurre studi su animali). Molti fra i partecipanti alla sperimentazione che avevano l’HIV morirono, e questo fatto venne omesso dai report sugli esperimenti che vennero pubblicati (che, invece, tentavano di suggerire che il vaccino fosse efficace).
Sulla scia di questa débâcle, sono rapidamente seguiti altri due contrattempi ancora più penosi, connessi a dei candidati vaccini terapeutici per l’HIV. Una compagnia chiamata MicroGeneSys creò un vaccino che conteneva la proteina gp160 dell’HIV, e Robert Redfield, uno scienziato che lavorava per il Walter Reed Army Institute of Research, condusse delle sperimentazioni su persone con HIV. Alla International AIDS Conference di Amsterdam del 1992, Redfield sostenne che i risultati preliminari erano incoraggianti, ma venne subito attaccato, perché aveva gonfiato i risultati. La situazione peggiorò ulteriormente, perché riuscì a ottenere dal Congresso uno stanziamento specifico di 20 milioni di dollari per condurre uno studio di efficacia sul vaccino, aggirando i normali meccanismi di revisione della ricerca (quel denaro fu poi utilizzato diversamente, quando si dimostrò che l’analisi iniziale di Redfield era inattendibile).
La International AIDS Conference di Berlino nel 1993 fu l’occasione per il terzo colpo alla credibilità della ricerca di un vaccino terapeutico. Un grande entusiasmo aveva accompagnato l’avventurarsi di Jonas Salk nel campo [della ricerca sull’HIV] a fine anni ’80, quando Salk aveva descritto lo sviluppo di un vaccino che comprendeva un isolato dell’HIV reso innocuo [whole-killed], che doveva essere testato come vaccino preventivo e come vaccino terapeutico. A causa di problemi normativi riguardo alla sicurezza dei vaccini costruiti con virus morti ma antigenicamente attivi in persone HIV negative, Salk si concentrò sugli studi terapeutici. I risultati erano attesissimi e avrebbero dovuto essere presentati a Berlino, ma non furono presentati al congresso, bensì durante una conferenza stampa; questa decisione diffuse diffidenza e rabbia fra i partecipanti, ancor prima che i dati venissero presentati. I risultati insignificanti delle sperimentazioni, che Salk e la Immune Response Corporation (la compagnia creata per produrre il vaccino) tentarono di spacciare come positivi, furono l’insulto finale.
Parallelamente all’accumularsi di questi disastri, i progressi scientifici minarono il razionale originario dell’approccio. L’idea che l’HIV rimanesse latente durante la fase asintomatica dell’infezione fu rovesciata dai dati che mostravano che il virus si replica costantemente e che questa replicazione è accompagnata da una continua proliferazione e morte dei CD4. I miglioramenti fatti dagli strumenti per valutare le risposte immunitarie rivelarono che si verifica una massiccia risposta specifica all’HIV che, nella maggior parte delle persone, non è in grado di controllare la replicazione virale; e ciò porta a una situazione in cui il sistema immunitario si agita vanamente davanti al virus durante il corso dell’infezione. Inoltre, si è dimostrato che i CD4 che rispondono all’HIV (cioè il linfociti T CD4 HIV-specifici) sono in genere infetti, il che contribuisce alla loro scarsa funzionalità e alla loro incapacità di aiutare in modo appropriato le altre componenti essenziali di una risposta immunitaria antivirale: i linfociti T CD8, la cui funzione primaria è il riconoscimento e l’uccisione delle cellule infette dal virus, e i linfociti B, che generano anticorpi che – quando efficaci – si agganciano alle particelle virali che si aggirano libere e impediscono loro di infettare nuove cellule. Queste scoperte hanno messo seriamente in discussione l’idea che l’aggiungere più antigeni anti-HIV mediante una vaccinazione terapeutica – quando il virus di per sé falliva nell’indurre una protezione immunitaria – potesse essere utile. Anche se la ricerca non si è fermata completamente, non era considerata prioritaria e le speranze di arrivare a un vaccino terapeutico si erano affievolite.
UN SECONDO TENTATIVO
Ci si sarebbe potuti aspettare che il successo crescente della triplice combinazione di antiretrovirali (ART) a metà anni ’90 diminuisse ulteriormente l’interesse per i vaccini terapeutici, invece portò a una lieve ripresa dell’interesse, per due ragioni principali. Anzitutto, i farmaci erano chiaramente imperfetti sia in termini di sicurezza, sia per gli effetti collaterali, e questo rendeva attraenti degli approcci che consentissero di usare la HAART in modo intermittente o di ritardarne l’inizio. In secondo luogo, l’intensa soppressione della replicazione dell’HIV mediata dalla HAART facilitava la ricostituzione del sistema immunitario e alcuni scienziati ritenevano che questo potesse offrire l’opportunità di usare vaccini che inducessero nuove risposte immuni HIV-specifiche, che potessero svilupparsi (o “maturare”, per usare il linguaggio dei vaccini) senza che il virus interferisse, dal momento che i farmaci lo tenevano sotto controllo.
Queste idee diedero vita a un gran numero di nuove sperimentazioni, che combinavano molti candidati vaccini insieme con la HAART. Fra questi candidati c’erano il vaccino di Salk con l’HIV reso innocuo (ora chiamato Remune), dei virus attenuati usati come vettori per trasportare antigeni anti-HIV (simili all’ALVAC, basato sul canarypox e all’MVA, basato sul vaiolo bovino), costrutti di ”DNA nudo”, che trasportano il codice genetico entro le cellule per costruirvi all’interno antigeni del vaccino. I dati furono prodotti mostrando che le risposte dei CD4 e dei CD8 HIV-specifici erano notevolmente superiori rispetto a quelle presenti prima della vaccinazione. Ma la questione cui non si riusciva a dare risposta era se questi apparenti effetti immunologici dei vaccini terapeutici potevano essere tradotti in benefici per la salute che fossero misurabili.
Remune fu testato in un grande trial di fase III, randomizzato, controllato con placebo, che valutò se la vaccinazione riusciva a ridurre la morbilità e la mortalità nelle persone con HIV, la maggioranza delle quali erano in HAART. Non si videro differenze significative nell’incidenza delle infezioni opportunistiche o delle morti, ma l’interpretazione dei risultati fu resa più difficile dal fatto che la cura standard cambiò da due a tre antiretrovirali proprio mentre la sperimentazione era in corso, e dal fatto che – fortunatamente – ci furono pochissimi casi estremi , sia nel braccio che ricevette il Remune, sia in quello che ricevette il placebo. Dal momento che l’efficacia della HAART rese essenzialmente impossibile dimostrare che la vaccinazione terapeutica apportasse un beneficio ulteriore, presero piede delle impostazioni di ricerca alternative.
C’erano due approcci principali. Il primo consisteva nell’immunizzare persone in HAART e poi valutare gli effetti sui livelli dei CD4 e della viremia durante una sospensione della terapia (con la speranza di consentire lunghi periodi di interruzione della HAART).
Il secondo consisteva nel somministrare vaccini terapeutici a persone in fase precoce dell’infezione, prima dell’inizio della HAART (con la speranza di riuscire a dimostrare che si otteneva un differimento nel raggiungimento della soglia dei CD4 sotto la quale si considerava opportuno iniziare la HAART).
I dati da questo genere di sperimentazioni di tanto in tanto hanno mostrato che la somministrazione di vaccini terapeutici era associata a una migliore preservazione del numero dei CD4 e una viremia un poco più bassa durante le interruzioni della HAART, anche se almeno un trial sull’ALVAC dimostrò il contrario. Un trial sud-africano che non è ancora stato pubblicato su un vaccino a DNA suggerisce che questo potrebbe avere leggermente ritardato il declino dei CD4 e quindi la connessa indicazione a iniziare la terapia.
UNA NUOVA ALBA SVANISCE
Una volta di più, tuttavia, i progressi scientifici servirono ad indebolire il razionale sotteso a questi studi. In particolare, l’idea che la HAART potesse venire interrotta in tutta sicurezza finché il numero di CD4 non crollava è stata dimostrata sbagliata dai risultati dello studio SMART (Strategic Management of Antiretroviral Therapy): dei risultati che fanno riflettere. Lo SMART aveva l’obiettivo specifico di stabilire se una terapia intermittente, guidata dal numero dei CD4, potesse essere efficace quanto una terapia continuativa; ma il trial ha dovuto essere sospeso prima del tempo, perché le persone nel braccio della terapia intermittente hanno raddoppiato il rischio di malattia e di morte. Le analisi hanno dimostrato che questi eventi erano connessi all’infiammazione che deriva da una viremia non soppressa e hanno portato a ulteriori indagini sul nesso fra marker infiammatori, replicazione virale incontrollata e risultati in termini di salute.
Questo tipo di ricerca è stato effettuato ormai in coorti multiple e in diversi contesti globali ed ha rafforzato le conclusioni tratte dallo SMART: i marker infiammatori sono connessi alla viremia ed hanno associazioni significative sia con la morbilità sia con la mortalità; si è inoltre dimostrato che le misurazioni dell’esposizione cumulativa alla viremia prima dell’inizio della HAART sono associate con un rischio di morbilità e di mortalità dopo l’inizio della terapia.
LA TERZA VOLTA ANDRÀ MEGLIO?
Anche se costituisce un problema per i piani di sviluppo commerciale di alcune società, è chiaro che l’asticella per i vaccini terapeutici è stata alzata. La questione-chiave è divenuta se sia possibile che un vaccino terapeutico generi risposte immunitarie HIV-specifiche in grado di contenere completamente la replicazione virale quando la HAART viene sospesa. Questo può sembrare un ostacolo spaventoso, dati i risultati raggiunti fino ad oggi, ma è coerente con la ricerca che sta emergendo adesso, che ha fatto rinascere i vaccini terapeutici per la terza volta. Questa ricerca persegue il fine ultimo: una cura per l’infezione da HIV.
Alcune presentazioni al CROI 2012 hanno contribuito insieme ad evidenziare questo nuovo razionale dei vaccini terapeutici. Uno degli obiettivi principali della ricerca di una cura è l’identificazione e l’eliminazione dei reservoir di cellule infettate dall’HIV, che rimangono nell’organismo nonostante la HAART (cellule latentemente infette). Per molti anni, gli scienziati hanno studiato sostanze che possano svegliare l’HIV dormiente, ma non era chiaro se questa strategia sarebbe stata sufficiente ad assicurare l’uccisione delle cellule infette. Al CROI, Lian Shan, del laboratorio di Robert Siliciano alla Johns Hopkins ha presentato delle prove convincenti del fatto che risvegliare semplicemente l’HIV non è sufficiente; servono i CD8 per dare il colpo di grazia e uccidere le cellule infette. Shan ha dimostrato che nella maggior parte delle persone che hanno un’infezione da HIV cronica, i CD8 HIV-specifici non funzionano abbastanza bene per fare quel che devono, ma hanno bisogno di essere stimolati da antigeni anti-HIV prima di mescolarsi con i CD4 infetti – sostanzialmente l’equivalente in laboratorio di una vaccinazione terapeutica.
Lo studio è stato pubblicato nel numero di Immunity dell’8 marzo 2012 e gli autori sono chiarissimi riguardo alle sue implicazioni. Infatti scrivono: “ Il nostro studio suggerisce con forza che migliorare le risposte CTL [dei linfociti T CD8] mediante una vaccinazione prima di riattivare il virus può essere essenziale per l’eradicazione dell’infezione da HIV-1”. [cfr. [STUDI] Siliciano: chinoline, disulfiram, reazioni CTL da qui in poi: http://www.hivforum.info/forum/viewtopi ... 360#p15360]
C’è poi un’altra ragione per studiare i vaccini terapeutici nel contesto della ricerca di una cura. Alcuni studi hanno dimostrato che una parte dei CD4 latentemente infetti che persistono nonostante la HAART sono specifici per gli antigeni HIV; ciò fa ipotizzare che la stimolazione con un vaccino terapeutico potrebbe anche riattivare il virus in queste cellule. Uno studio dei vaccini terapeutici nei bambini con HIV ha fornito qualche supporto a questa idea, poiché ha mostrato la prova di una transitoria diminuzione nel numero dei CD4 latentemente infetti durante le immunizzazioni.
Un trial che è attualmente in corso sugli adulti – l’ERAMUNE 02 – è specificamente volto ad esplorare questa possibilità in modo più approfondito.
LA STRADA DA FARE
Nonostante la storia di controversie e incertezze, il proseguire della ricerca di una cura ha fornito un razionale forte e scientificamente fondato per continuare gli studi sui vaccini terapeutici. Ora gli obiettivi sono molto più chiari: ottenere il contenimento della replicazione dell’HIV e prevenire la progressione della malattia in assenza di trattamento (ora si parla di “cura funzionale”); oppure giungere a una completa eliminazione del virus (“cura sterilizzante”).
Sono in corso le prime valutazioni dei vaccini terapeutici in questo nuovo contesto, ma restano da risolvere alcune questioni rilevanti, in particolare la definizione delle risposte immunitarie ideali che dovrebbero essere indotte e la valutazione se queste risposte possano essere efficaci e durature.
I ricercatori devono anche esplorare quali altre strategie anti-latenza dovrebbero essere combinate con i vaccini terapeutici, e se si debbano combinare fra loro diversi candidati vaccini per raggiungere i risultati migliori.
Potrebbe anche esserci un ruolo per dei vaccini terapeutici nel contesto degli approcci di terapia genica, come strumento per aumentare il numero dei CD4 HIV-specifici modificati geneticamente.
Mentre è chiaro che c’è ancora della strada da fare, c’è – finalmente – almeno un senso e pare che [gli studi per] i vaccini terapeutici abbiano preso la giusta direzione.
Ricordate Richard Jefferys? È l’attivista newyorkese di TAG (Treatment Action Group) che accusò la giornalista negazionista Celia Farber di essere una raccontaballe e di avere per anni spacciato argomentazioni fraudolente per diffondere la teoria completamente screditata di Duesberg, secondo cui sono l’uso di droghe e la malnutrizione – e non l’HIV – a causare l’AIDS. Bene, Ms Farber – forse dopo qualche seduta di troppo nella scatola della vita ad ascoltare il magico suono dell’amore – ebbe l’ispirazione di querelarlo per diffamazione e – ohibò, ohibò – PERSE LA CAUSA (una bella intervista a Richard si trova in quackdown.info: How Celia Farber tried to sue an AIDS activist - and lost).
Ora Richard ha scritto per TAG un chiaro ed esauriente lavoro sui vaccini terapeutici. La versione completa è tradotta qui sotto; se invece ne volete un riassunto ad opera di Tim Horn, potete leggerlo qui: http://www.aidsmeds.com/articles/hiv_th ... 2220.shtml.
The Odyssey of Therapeutic Vaccines for HIV
Nei primi tempi dopo la scoperta dell’HIV a metà anni ’80, dominava l’incertezza su come il sistema immunitario rispondesse al virus. All’inizio, si pensava che il tempo fra il momento dell’infezione e lo sviluppo di una immunodeficienza grave e della malattia fosse un periodo di inattività virale o di latenza. In questo contesto, parve logico ipotizzare che forse una vaccinazione potesse essere utilizzata per sostenere la risposta immunitaria all’HIV e quindi rimandare, o addirittura evitare, lo sviluppo della malattia.
Ma i primi tentativi di raggiungere questo obiettivo rapidamente fecero della ricerca di un vaccino terapeutico oggetto di controversia, stendendo un velo iniziale sul campo, perché ogni candidato fallì nel dimostrare una qualche efficacia. Inoltre, il razionale scientifico dell’approccio si evolse, quanto più si veniva a conoscenza della patogenesi dell’infezione da HIV e dei tipi di risposte immunitarie che possono essere efficaci – e inefficaci – nel controllare il virus. Dopo un periodo in cui l’entusiasmo per la prospettiva dei vaccini terapeutici era svanito, la recente rinascita dell’interesse per una ricerca che aspira a curare l’infezione da HIV ha offerto nuove ragioni per perseguire il loro sviluppo.
STORIA
La controversia riguardo la ricerca iniziale di una vaccinazione terapeutica iniziò a metà anni ’80, quando uno scienziato francese, Daniel Zagury, ottenne un vaccinia virus dai National Institutes of Health, che era stato modificato in modo da contenere alcune componenti dell’HIV, e si mise a testarlo sia su persone con HIV sia su persone non infettate a Parigi e in Zaire, senza un’adeguata approvazione normativa (il costrutto del vaccinia virus era stato creato solo allo scopo di condurre studi su animali). Molti fra i partecipanti alla sperimentazione che avevano l’HIV morirono, e questo fatto venne omesso dai report sugli esperimenti che vennero pubblicati (che, invece, tentavano di suggerire che il vaccino fosse efficace).
Sulla scia di questa débâcle, sono rapidamente seguiti altri due contrattempi ancora più penosi, connessi a dei candidati vaccini terapeutici per l’HIV. Una compagnia chiamata MicroGeneSys creò un vaccino che conteneva la proteina gp160 dell’HIV, e Robert Redfield, uno scienziato che lavorava per il Walter Reed Army Institute of Research, condusse delle sperimentazioni su persone con HIV. Alla International AIDS Conference di Amsterdam del 1992, Redfield sostenne che i risultati preliminari erano incoraggianti, ma venne subito attaccato, perché aveva gonfiato i risultati. La situazione peggiorò ulteriormente, perché riuscì a ottenere dal Congresso uno stanziamento specifico di 20 milioni di dollari per condurre uno studio di efficacia sul vaccino, aggirando i normali meccanismi di revisione della ricerca (quel denaro fu poi utilizzato diversamente, quando si dimostrò che l’analisi iniziale di Redfield era inattendibile).
La International AIDS Conference di Berlino nel 1993 fu l’occasione per il terzo colpo alla credibilità della ricerca di un vaccino terapeutico. Un grande entusiasmo aveva accompagnato l’avventurarsi di Jonas Salk nel campo [della ricerca sull’HIV] a fine anni ’80, quando Salk aveva descritto lo sviluppo di un vaccino che comprendeva un isolato dell’HIV reso innocuo [whole-killed], che doveva essere testato come vaccino preventivo e come vaccino terapeutico. A causa di problemi normativi riguardo alla sicurezza dei vaccini costruiti con virus morti ma antigenicamente attivi in persone HIV negative, Salk si concentrò sugli studi terapeutici. I risultati erano attesissimi e avrebbero dovuto essere presentati a Berlino, ma non furono presentati al congresso, bensì durante una conferenza stampa; questa decisione diffuse diffidenza e rabbia fra i partecipanti, ancor prima che i dati venissero presentati. I risultati insignificanti delle sperimentazioni, che Salk e la Immune Response Corporation (la compagnia creata per produrre il vaccino) tentarono di spacciare come positivi, furono l’insulto finale.
Parallelamente all’accumularsi di questi disastri, i progressi scientifici minarono il razionale originario dell’approccio. L’idea che l’HIV rimanesse latente durante la fase asintomatica dell’infezione fu rovesciata dai dati che mostravano che il virus si replica costantemente e che questa replicazione è accompagnata da una continua proliferazione e morte dei CD4. I miglioramenti fatti dagli strumenti per valutare le risposte immunitarie rivelarono che si verifica una massiccia risposta specifica all’HIV che, nella maggior parte delle persone, non è in grado di controllare la replicazione virale; e ciò porta a una situazione in cui il sistema immunitario si agita vanamente davanti al virus durante il corso dell’infezione. Inoltre, si è dimostrato che i CD4 che rispondono all’HIV (cioè il linfociti T CD4 HIV-specifici) sono in genere infetti, il che contribuisce alla loro scarsa funzionalità e alla loro incapacità di aiutare in modo appropriato le altre componenti essenziali di una risposta immunitaria antivirale: i linfociti T CD8, la cui funzione primaria è il riconoscimento e l’uccisione delle cellule infette dal virus, e i linfociti B, che generano anticorpi che – quando efficaci – si agganciano alle particelle virali che si aggirano libere e impediscono loro di infettare nuove cellule. Queste scoperte hanno messo seriamente in discussione l’idea che l’aggiungere più antigeni anti-HIV mediante una vaccinazione terapeutica – quando il virus di per sé falliva nell’indurre una protezione immunitaria – potesse essere utile. Anche se la ricerca non si è fermata completamente, non era considerata prioritaria e le speranze di arrivare a un vaccino terapeutico si erano affievolite.
UN SECONDO TENTATIVO
Ci si sarebbe potuti aspettare che il successo crescente della triplice combinazione di antiretrovirali (ART) a metà anni ’90 diminuisse ulteriormente l’interesse per i vaccini terapeutici, invece portò a una lieve ripresa dell’interesse, per due ragioni principali. Anzitutto, i farmaci erano chiaramente imperfetti sia in termini di sicurezza, sia per gli effetti collaterali, e questo rendeva attraenti degli approcci che consentissero di usare la HAART in modo intermittente o di ritardarne l’inizio. In secondo luogo, l’intensa soppressione della replicazione dell’HIV mediata dalla HAART facilitava la ricostituzione del sistema immunitario e alcuni scienziati ritenevano che questo potesse offrire l’opportunità di usare vaccini che inducessero nuove risposte immuni HIV-specifiche, che potessero svilupparsi (o “maturare”, per usare il linguaggio dei vaccini) senza che il virus interferisse, dal momento che i farmaci lo tenevano sotto controllo.
Queste idee diedero vita a un gran numero di nuove sperimentazioni, che combinavano molti candidati vaccini insieme con la HAART. Fra questi candidati c’erano il vaccino di Salk con l’HIV reso innocuo (ora chiamato Remune), dei virus attenuati usati come vettori per trasportare antigeni anti-HIV (simili all’ALVAC, basato sul canarypox e all’MVA, basato sul vaiolo bovino), costrutti di ”DNA nudo”, che trasportano il codice genetico entro le cellule per costruirvi all’interno antigeni del vaccino. I dati furono prodotti mostrando che le risposte dei CD4 e dei CD8 HIV-specifici erano notevolmente superiori rispetto a quelle presenti prima della vaccinazione. Ma la questione cui non si riusciva a dare risposta era se questi apparenti effetti immunologici dei vaccini terapeutici potevano essere tradotti in benefici per la salute che fossero misurabili.
Remune fu testato in un grande trial di fase III, randomizzato, controllato con placebo, che valutò se la vaccinazione riusciva a ridurre la morbilità e la mortalità nelle persone con HIV, la maggioranza delle quali erano in HAART. Non si videro differenze significative nell’incidenza delle infezioni opportunistiche o delle morti, ma l’interpretazione dei risultati fu resa più difficile dal fatto che la cura standard cambiò da due a tre antiretrovirali proprio mentre la sperimentazione era in corso, e dal fatto che – fortunatamente – ci furono pochissimi casi estremi , sia nel braccio che ricevette il Remune, sia in quello che ricevette il placebo. Dal momento che l’efficacia della HAART rese essenzialmente impossibile dimostrare che la vaccinazione terapeutica apportasse un beneficio ulteriore, presero piede delle impostazioni di ricerca alternative.
C’erano due approcci principali. Il primo consisteva nell’immunizzare persone in HAART e poi valutare gli effetti sui livelli dei CD4 e della viremia durante una sospensione della terapia (con la speranza di consentire lunghi periodi di interruzione della HAART).
Il secondo consisteva nel somministrare vaccini terapeutici a persone in fase precoce dell’infezione, prima dell’inizio della HAART (con la speranza di riuscire a dimostrare che si otteneva un differimento nel raggiungimento della soglia dei CD4 sotto la quale si considerava opportuno iniziare la HAART).
I dati da questo genere di sperimentazioni di tanto in tanto hanno mostrato che la somministrazione di vaccini terapeutici era associata a una migliore preservazione del numero dei CD4 e una viremia un poco più bassa durante le interruzioni della HAART, anche se almeno un trial sull’ALVAC dimostrò il contrario. Un trial sud-africano che non è ancora stato pubblicato su un vaccino a DNA suggerisce che questo potrebbe avere leggermente ritardato il declino dei CD4 e quindi la connessa indicazione a iniziare la terapia.
UNA NUOVA ALBA SVANISCE
Una volta di più, tuttavia, i progressi scientifici servirono ad indebolire il razionale sotteso a questi studi. In particolare, l’idea che la HAART potesse venire interrotta in tutta sicurezza finché il numero di CD4 non crollava è stata dimostrata sbagliata dai risultati dello studio SMART (Strategic Management of Antiretroviral Therapy): dei risultati che fanno riflettere. Lo SMART aveva l’obiettivo specifico di stabilire se una terapia intermittente, guidata dal numero dei CD4, potesse essere efficace quanto una terapia continuativa; ma il trial ha dovuto essere sospeso prima del tempo, perché le persone nel braccio della terapia intermittente hanno raddoppiato il rischio di malattia e di morte. Le analisi hanno dimostrato che questi eventi erano connessi all’infiammazione che deriva da una viremia non soppressa e hanno portato a ulteriori indagini sul nesso fra marker infiammatori, replicazione virale incontrollata e risultati in termini di salute.
Questo tipo di ricerca è stato effettuato ormai in coorti multiple e in diversi contesti globali ed ha rafforzato le conclusioni tratte dallo SMART: i marker infiammatori sono connessi alla viremia ed hanno associazioni significative sia con la morbilità sia con la mortalità; si è inoltre dimostrato che le misurazioni dell’esposizione cumulativa alla viremia prima dell’inizio della HAART sono associate con un rischio di morbilità e di mortalità dopo l’inizio della terapia.
LA TERZA VOLTA ANDRÀ MEGLIO?
Anche se costituisce un problema per i piani di sviluppo commerciale di alcune società, è chiaro che l’asticella per i vaccini terapeutici è stata alzata. La questione-chiave è divenuta se sia possibile che un vaccino terapeutico generi risposte immunitarie HIV-specifiche in grado di contenere completamente la replicazione virale quando la HAART viene sospesa. Questo può sembrare un ostacolo spaventoso, dati i risultati raggiunti fino ad oggi, ma è coerente con la ricerca che sta emergendo adesso, che ha fatto rinascere i vaccini terapeutici per la terza volta. Questa ricerca persegue il fine ultimo: una cura per l’infezione da HIV.
Alcune presentazioni al CROI 2012 hanno contribuito insieme ad evidenziare questo nuovo razionale dei vaccini terapeutici. Uno degli obiettivi principali della ricerca di una cura è l’identificazione e l’eliminazione dei reservoir di cellule infettate dall’HIV, che rimangono nell’organismo nonostante la HAART (cellule latentemente infette). Per molti anni, gli scienziati hanno studiato sostanze che possano svegliare l’HIV dormiente, ma non era chiaro se questa strategia sarebbe stata sufficiente ad assicurare l’uccisione delle cellule infette. Al CROI, Lian Shan, del laboratorio di Robert Siliciano alla Johns Hopkins ha presentato delle prove convincenti del fatto che risvegliare semplicemente l’HIV non è sufficiente; servono i CD8 per dare il colpo di grazia e uccidere le cellule infette. Shan ha dimostrato che nella maggior parte delle persone che hanno un’infezione da HIV cronica, i CD8 HIV-specifici non funzionano abbastanza bene per fare quel che devono, ma hanno bisogno di essere stimolati da antigeni anti-HIV prima di mescolarsi con i CD4 infetti – sostanzialmente l’equivalente in laboratorio di una vaccinazione terapeutica.
Lo studio è stato pubblicato nel numero di Immunity dell’8 marzo 2012 e gli autori sono chiarissimi riguardo alle sue implicazioni. Infatti scrivono: “ Il nostro studio suggerisce con forza che migliorare le risposte CTL [dei linfociti T CD8] mediante una vaccinazione prima di riattivare il virus può essere essenziale per l’eradicazione dell’infezione da HIV-1”. [cfr. [STUDI] Siliciano: chinoline, disulfiram, reazioni CTL da qui in poi: http://www.hivforum.info/forum/viewtopi ... 360#p15360]
C’è poi un’altra ragione per studiare i vaccini terapeutici nel contesto della ricerca di una cura. Alcuni studi hanno dimostrato che una parte dei CD4 latentemente infetti che persistono nonostante la HAART sono specifici per gli antigeni HIV; ciò fa ipotizzare che la stimolazione con un vaccino terapeutico potrebbe anche riattivare il virus in queste cellule. Uno studio dei vaccini terapeutici nei bambini con HIV ha fornito qualche supporto a questa idea, poiché ha mostrato la prova di una transitoria diminuzione nel numero dei CD4 latentemente infetti durante le immunizzazioni.
Un trial che è attualmente in corso sugli adulti – l’ERAMUNE 02 – è specificamente volto ad esplorare questa possibilità in modo più approfondito.
LA STRADA DA FARE
Nonostante la storia di controversie e incertezze, il proseguire della ricerca di una cura ha fornito un razionale forte e scientificamente fondato per continuare gli studi sui vaccini terapeutici. Ora gli obiettivi sono molto più chiari: ottenere il contenimento della replicazione dell’HIV e prevenire la progressione della malattia in assenza di trattamento (ora si parla di “cura funzionale”); oppure giungere a una completa eliminazione del virus (“cura sterilizzante”).
Sono in corso le prime valutazioni dei vaccini terapeutici in questo nuovo contesto, ma restano da risolvere alcune questioni rilevanti, in particolare la definizione delle risposte immunitarie ideali che dovrebbero essere indotte e la valutazione se queste risposte possano essere efficaci e durature.
I ricercatori devono anche esplorare quali altre strategie anti-latenza dovrebbero essere combinate con i vaccini terapeutici, e se si debbano combinare fra loro diversi candidati vaccini per raggiungere i risultati migliori.
Potrebbe anche esserci un ruolo per dei vaccini terapeutici nel contesto degli approcci di terapia genica, come strumento per aumentare il numero dei CD4 HIV-specifici modificati geneticamente.
Mentre è chiaro che c’è ancora della strada da fare, c’è – finalmente – almeno un senso e pare che [gli studi per] i vaccini terapeutici abbiano preso la giusta direzione.