[CROI 2016] persone HIV+ sovrastimano la propria infettività

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[CROI 2016] persone HIV+ sovrastimano la propria infettività

Messaggio da uffa2 » lunedì 29 febbraio 2016, 22:45

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La domanda su quanto possiamo “essere contagiosi” ce la siamo posta tutte e tutti, prima e anche dopo l’ingresso nell’era del “treatment as prevention”, ossia della comprensione del fatto che i sieropositivi in trattamento sono immersi in una specie di PrEP costante, quindi già il titolo di quest’articolo pubblicato su AIDSmap (di cui questo post è una traduzione) non ci racconta in realtà nulla di nuovo.

Una subanalisi dello studio ACTG A5257, presentata a questo CROI 2016, mostra che solo una piccola percentuale di persone sieropositive si considerava come non-infettiva, dopo un massimo di tre anni in terapia antiretrovirale (ART), e un terzo dei partecipanti considerava la propria probabilità di infettare un partner come ancora "alta", anche se solo il 10% dei partecipanti in realtà aveva una carica virale rilevabile.
L’ACTG A5257 era uno studio di confronto di grandi dimensioni tra farmaci, in cui 1809 partecipanti sono stati randomizzati a ricevere atazanavir o darunavir potenziati con ritonavir (ATV/r, DRV/r), più tenofovir/emtricitabina o raltegravir più tenofovir/emtricitabina. I risultati a 96 settimane sono già stati presentati al CROI 2014. Lo studio ha arruolato partecipanti tra il 2009 e il 2011 e ai pazienti è stato chiesto di indicare quale credessero fosse la loro infettività uno, due e tre anni dopo l'inizio della ART, quindi questo studio comprende le risposte fino al 2014. ACTG A5257 was a large drug-comparison study in which 1809 participants were randomised to receive either raltegravir, boosted atazanavir or boosted darunavir, plus tenofovir/emtricitabine. The 96-week results were presented at the CROI 2014 conference. The trial enrolled participants between 2009 and 2011 and patients were asked about their infectiousness beliefs one, two and three years after starting ART, so this study includes responses up to 2014.

Un quarto della popolazione in studio era composta da donne, l'età media era di 37 anni, e l'etnia era distribuita abbastanza uniformemente, con il 34% bianco, 42% afro-americani e 22% ispanica. La carica virale media al basale era di 40.000 copie/ml, con il 30% con una carica virale superiore a 100.000 copie/ml.
Presentando i risultati, il dottor Raphael Landovitz della University of California di Los Angeles, ha detto che lo studio ha dimostrato che non vi era alcuna correlazione tra la carica virale reale di una persona e la convinzione di questa su quanto fosse infettiva.
Ai partecipanti era chiesto "Quanto sarebbe stato probabile infettare una persona con l'HIV se oggi avessi fatto sesso non protetto con questa persona?" The participants were asked the question “How likely would you be to give someone HIV if you had unprotected sex with them today?”

I partecipanti valutavano la propria percezione d’infettività su una scala analogica visiva, da "per niente infettiva" (zero) ad "altamente contagiosa" (100). Essi sono stati poi divisi in quattro categorie: quelli che pensavano non fossero infettivi, chi pensava che il rischio di infettare un'altra persona era "basso" (punteggio 1-33), "medio" (34-66) o "alto" ( 67-100).
All'inizio dello studio, il 58% pensava di essere altamente contagioso, e il 26% si collocava nella categoria "media". Il restante 16% pensava -a questo punto erroneamente- che il proprio rischio di infettare un'altra persona fosse "basso" (10%) o zero (6%).
Dopo un anno in ART poco meno di un terzo dei partecipanti pensava che il proprio rischio di infettare qualcuno fosse basso, ma il 38% credeva ancora che la propria infettività fosse elevata. La percentuale di chi pensava di non essere per niente infettivo era leggermente aumentata, al 10% (per inciso, l’8,1% di questo 10% - appena otto individui - effettivamente si sbagliava avendo una carica virale rilevabile, ed erano, almeno in una certa misura, infettivi),
Nei successivi due anni questo dato restava sostanzialmente stabile. Alla settimana 96, quando il 90% dei partecipanti allo studio erano in realtà in soppressione virale, il 36% pensava ancora di essere altamente infettivo e il 19% si posizionava nella categoria "media". La percentuale di quelli che pensavano che la loro possibilità di infettare fosse bassa era salita solo di un punto, al 33%, e la percentuale di quelli che pensavano non essere infettivi al 12%.
Alla settimana 144, dopo tre anni di ART, il 34% pensava ancora di essere altamente infettiva e la maggioranza (52%), pensava di essere molto o un po' contagiosa. La categoria "basso rischio" era aumentata di due punti al 35% e quella di chi si riteneva non infettivo di due punti, al 14%.
In altre parole, dopo tre anni di terapia antiretrovirale ampiamente soppressiva, la percentuale di chi pensava di essere altamente infettivo s’era all'incirca dimezzata e la percentuale di chi credeva non essere infettivo erano quasi raddoppiata, ma queste cifre in nessun modo riflettevano le reali proporzioni di infettività, e non avevano alcun rapporto con la carica virale effettiva delle persone.
Alla settimana 48, i giovani di età inferiore ai 30 anni erano un po' più propensi rispetto alla media a considerare ridotta la propria infettività. I neri, le persone con basso livello d’istruzione, e le persone entrate nello studio con un numero molto basso di CD4 erano meno propense.
Le donne e le persone ispaniche erano più propense a mettersi nella categoria "non infettiva" alla settimana 48, e gli utilizzatori di droghe ricreative e coloro che al basale vedevano se stessi come altamente infettivi erano meno propensi.
Il gruppo di studio analizzerà ulteriormente i dati per comprendere se le convinzioni delle persone circa la loro infettività abbiano avuto qualche impatto sui loro comportamenti sessuali e la scelta del partner.
Dato che le opinioni delle persone circa la loro infettività avevano poco a che fare con la loro reale infettività, è stato chiesto al dottor Landovitz se forse i pazienti avessero ricevuto messaggi eccessivamente prudenti da professionisti del settore sanitario, o sentissero, a causa dello stigma dell'HIV, che dovevano professare una sorta di “fede” nella loro infettività.
Il dottor Landovitz ha commentato che lo studio ACTG A5257 attraversava il periodo durante il quale, nel maggio 2011, sono stati annunciati i risultati dello studio HPTN 052, che ha confermato che le persone con HIV che erano in ART erano raramente infettive, questo risultato sembra però aver avuto scarso impatto sui partecipanti A5257 ACTG. Tuttavia lo studio è terminato nel periodo in cui sono stati presentati i risultati provvisori dell’ancora più persuasivo studio PARTNER, in cui non si sono registrate trasmissioni da chiunque avesse una carica virale non rilevabile; il dottor Landovitz ha commentato che se il sub-studio dell’A5257 ACTG fosse ripetuto oggi, le convinzioni delle persone circa la loro infettività potrebbero essere diverse.
Alla domanda su quale messaggio dovremmo dare ai pazienti circa carica virale e infettività, il dottor Landovitz ha commentato: "Non dare un messaggio semplicistico né parlare in assoluto. Nella mia esperienza, le persone vogliono informazioni graduate circa il loro rischio di infettare gli altri e vogliono essere in grado di decidere con la propria testa ".


Landovitz RJ et al. Perception of infectiousness in HIV-infected persons after initiating ART: ACTG A5257. Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections, Boston, abstract #55, 2016.
Articolo di AIDSmap: http://www.aidsmap.com/page/3038671
Abstract: http://www.croiconference.org/sessions/ ... actg-a5257
Webcast: http://www.croiwebcasts.org/console/pla ... Type=audio&


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Dora
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Re: [CROI 2016] persone HIV+ sovrastimano la propria infetti

Messaggio da Dora » martedì 1 marzo 2016, 7:11

uffa2 ha scritto:Dato che le opinioni delle persone circa la loro infettività avevano poco a che fare con la loro reale infettività, è stato chiesto al dottor Landovitz se forse i pazienti avessero ricevuto messaggi eccessivamente prudenti da professionisti del settore sanitario, o sentissero, a causa dello stigma dell'HIV, che dovevano professare una sorta di “fede” nella loro infettività.
Il dottor Landovitz ha commentato che lo studio ACTG A5257 attraversava il periodo durante il quale, nel maggio 2011, sono stati annunciati i risultati dello studio HPTN 052, che ha confermato che le persone con HIV che erano in ART erano raramente infettive, questo risultato sembra però aver avuto scarso impatto sui partecipanti A5257 ACTG. Tuttavia lo studio è terminato nel periodo in cui sono stati presentati i risultati provvisori dell’ancora più persuasivo studio PARTNER, in cui non si sono registrate trasmissioni da chiunque avesse una carica virale non rilevabile; il dottor Landovitz ha commentato che se il sub-studio dell’A5257 ACTG fosse ripetuto oggi, le convinzioni delle persone circa la loro infettività potrebbero essere diverse.
Alla domanda su quale messaggio dovremmo dare ai pazienti circa carica virale e infettività, il dottor Landovitz ha commentato: "Non dare un messaggio semplicistico né parlare in assoluto. Nella mia esperienza, le persone vogliono informazioni graduate circa il loro rischio di infettare gli altri e vogliono essere in grado di decidere con la propria testa ".
Speriamo che lo studio venga rifatto, ora che i dati degli studi HPTN 052 e PARTNER paiono aver fornito basi piuttosto solide all'ipotesi della non infettività di chi ha viremia soppressa. Io credo che i risultati sarebbero diversi e che la diffusione della consapevolezza che chi è in terapia non infetta permetterà di modificare l'autopercezione di molte persone con HIV e avrà anche ricadute positive sullo stigma.

Però da questo studio emerge anche un bel problema di comunicazione fra medici e pazienti - ampiamente confermato da quanto raccontano molti utenti di questo forum.
Ad esempio, ho notato uno schema ricorrente: il medico dice "se hai viremia stabilmente soppressa, allora non infetti", però lo dà come informazione scientifica, basata - come deve essere - su delle statistiche. Il paziente delle statistiche si interessa poco e vuole sapere se può fare sesso senza condom. Il medico non si prende la responsabilità di rispondergli di sì e questo crea confusione, nonostante l'esperienza del dottor Landovitz sul desiderio di autonomia del paziente.

Ma la cosa che trovo più interessante uscita da questo studio è lo sfasamento fra reale situazione della viremia e percezione della propria infettività. E su questo gap mi piacerebbe molto saperne di più, perché credo non valga solo nei confronti della viremia, ma di tanti altri aspetti dell'infezione.

Mi piacerebbe leggere altri studi fatti su altri aspetti della percezione di sé connessa all'infezione da HIV. Magari è solo perché non mi è mai capitato di imbattermi in lavori recenti, ma ad esempio mi piacerebbe sapere come sta cambiando in questi anni la visione del futuro, l'idea degli effetti a breve e lungo termine delle terapie, cose così.

Dopo la rivoluzionaria svolta della ART 20 anni fa, che ha evidentemente segnato il passaggio dalla morte quasi certa alla vita, che studi sono stati fatti sulla percezione - per forza di cosa più sottile - che le persone infettate da poco hanno dei nuovi regimi terapeutici? Perché in molti continua a permanere una sorta di terror panico nei confronti dei farmaci? Perché i neoinfetti pensano che non si sia mai andati oltre all'AZT? Quanto pesa la propaganda di quelle bestie dei negazionisti sulla paura delle terapie, che troviamo così spesso accompagnare una grave sottovalutazione degli effetti del virus?

Se qualcuno è a conoscenza di studi seri fatti negli ultimi anni su questi sfasamenti fra percezioni e realtà, per favore me li indichi.



georg.frideric
Messaggi: 278
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Re: [CROI 2016] persone HIV+ sovrastimano la propria infetti

Messaggio da georg.frideric » martedì 1 marzo 2016, 8:30

Io Dora avevo letto a suo tempo un articolo che riassumeva un 'qualitative study' svolto in Australia (lo avevo postato qui http://www.hivforum.info/forum/viewtopic.php?t=4447 ) avente a oggetto il cambiamento che la disponibilità di efficaci terapie antiretrovirali ha generato nella percezione che della propria relazione hanno le coppie sierodiscordanti. Secondo questo studio sempre meno le relazioni sierodiscordanti sono associate all'idea di "rischio", e sempre più le coppie vivono la propria relazione come "normal and safe". E sulla percezione di sé: "Antiretrovirals appear to be helping to restore a sense of social and sexual belonging in people living with HIV, allowing them to live fuller lives". L'articolo è leggibile qui http://www.aidsmap.com/page/2999479



Dora
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Iscritto il: martedì 7 luglio 2009, 10:48

Re: [CROI 2016] persone HIV+ sovrastimano la propria infetti

Messaggio da Dora » martedì 1 marzo 2016, 8:49

georg.frideric ha scritto:Io Dora avevo letto a suo tempo un articolo che riassumeva un 'qualitative study' svolto in Australia (lo avevo postato qui http://www.hivforum.info/forum/viewtopic.php?t=4447 ) avente a oggetto il cambiamento che la disponibilità di efficaci terapie antiretrovirali ha generato nella percezione che della propria relazione hanno le coppie sierodiscordanti. Secondo questo studio sempre meno le relazioni sierodiscordanti sono associate all'idea di "rischio", e sempre più le coppie vivono la propria relazione come "normal and safe". E sulla percezione di sé: "Antiretrovirals appear to be helping to restore a sense of social and sexual belonging in people living with HIV, allowing them to live fuller lives". L'articolo è leggibile qui http://www.aidsmap.com/page/2999479
Sì, lo ricordo. Ma è simile allo studio americano, incentrato su come viene vissuto il sesso. Mi pare che su questo aspetto ci sia una grande attenzione - e gustamente, visto quanto sono importanti sia la serenità con cui si affrontano i rapporti sessuali, sia la leggerezza con cui si è disposti a prendersi dei rischi.

Invece non mi è mai capitato (ma probabilmente dipende da me, perché le mie antenne sono sempre rivolte alla ricerca biomedica) di leggere studi recenti sul gap fra pericolosità reale e percepita dei farmaci, o su come si sono evolute la percezione della malattia e delle aspettative di durata e di qualità della vita, diciamo a partire da un decennio dopo l'introduzione della ART. Cose così, non necessariamente incentrate sulla qualità della vita sessuale.

Studiando da anni l'azione dei negazionisti in rete, poi, io mi sono fatta l'idea che la loro propaganda influenzi anche chi non è negazionista, chi i farmaci li prende sapendo che bloccare la replicazione del virus è la condizione per mantenersi in salute. E credo che questo contribuisca in misura variabile ad aumentare la sofferenza con cui molti accettano di iniziare la ART e le difficoltà che tanti hanno a venire a patti con la diagnosi. Anche qui c'è un gap fra reale pericolosità del virus e dei farmaci e percezione che se ne ha: un gap che in alcuni porta ad essere terrorizzati e a metterci molto più tempo di quanto sarebbe necessario per accettare la diagnosi, in altri a sottovalutare il problema e ad avere una cattiva aderenza alla terapia.

Ma di analisi del fenomeno non ce ne sono (di questo sono ragionevolmente certa), quindi per adesso è un'ipotesi che non posso confermare. Fra l'altro, questa è la ragione per cui non mollo la pressione su sinistri figuri come Ruggiero: anche se ormai del movimento negazionista rimangono soltanto i cascami, tutta la spazzatura che hanno rovesciato in rete continua a fare danni ed è destinata a restare qui a lungo.



georg.frideric
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Re: [CROI 2016] persone HIV+ sovrastimano la propria infetti

Messaggio da georg.frideric » lunedì 7 marzo 2016, 14:17

Dora ha scritto: non mi è mai capitato (ma probabilmente dipende da me, perché le mie antenne sono sempre rivolte alla ricerca biomedica) di leggere studi recenti sul gap fra pericolosità reale e percepita dei farmaci, o su come si sono evolute la percezione della malattia e delle aspettative di durata e di qualità della vita, diciamo a partire da un decennio dopo l'introduzione della ART. Cose così, non necessariamente incentrate sulla qualità della vita sessuale.

Studiando da anni l'azione dei negazionisti in rete, poi, io mi sono fatta l'idea che la loro propaganda influenzi anche chi non è negazionista, chi i farmaci li prende sapendo che bloccare la replicazione del virus è la condizione per mantenersi in salute. E credo che questo contribuisca in misura variabile ad aumentare la sofferenza con cui molti accettano di iniziare la ART e le difficoltà che tanti hanno a venire a patti con la diagnosi. Anche qui c'è un gap fra reale pericolosità del virus e dei farmaci e percezione che se ne ha: un gap che in alcuni porta ad essere terrorizzati e a metterci molto più tempo di quanto sarebbe necessario per accettare la diagnosi, in altri a sottovalutare il problema e ad avere una cattiva aderenza alla terapia.

Ma di analisi del fenomeno non ce ne sono (di questo sono ragionevolmente certa), quindi per adesso è un'ipotesi che non posso confermare. Fra l'altro, questa è la ragione per cui non mollo la pressione su sinistri figuri come Ruggiero: anche se ormai del movimento negazionista rimangono soltanto i cascami, tutta la spazzatura che hanno rovesciato in rete continua a fare danni ed è destinata a restare qui a lungo.
In questo articolo su aidsmap - http://www.aidsmap.com/page/3041727 -, dedicato alla migliore qualità della vita delle persone che iniziano presto la ART provata dallo studio START, si cita uno studio qualitativo australiano che documenta quello che hai immaginato, e cioè che la percezione non fondata o comunque non basata su evidenze scientifiche della ART come qualcosa di alla fine pericoloso porta alcune persone a allontanare l'inizio della terapia, rinunciando a un beneficio certo per paura di un danno solo immaginato: "Negative beliefs about antiretrovirals being ‘strong’ or ‘toxic’ medicines can contribute to some people preferring to delay HIV treatment until they feel it is ‘really necessary’."



Dora
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Re: [CROI 2016] persone HIV+ sovrastimano la propria infetti

Messaggio da Dora » lunedì 7 marzo 2016, 15:58

georg.frideric ha scritto:In questo articolo su aidsmap - http://www.aidsmap.com/page/3041727 -, dedicato alla migliore qualità della vita delle persone che iniziano presto la ART provata dallo studio START, si cita uno studio qualitativo australiano che documenta quello che hai immaginato, e cioè che la percezione non fondata o comunque non basata su evidenze scientifiche della ART come qualcosa di alla fine pericoloso porta alcune persone a allontanare l'inizio della terapia, rinunciando a un beneficio certo per paura di un danno solo immaginato: "Negative beliefs about antiretrovirals being ‘strong’ or ‘toxic’ medicines can contribute to some people preferring to delay HIV treatment until they feel it is ‘really necessary’."
Purtroppo non riesco ad avere accesso a Sexual Health e a leggere l'intero articolo, ma dall'abstract direi che cercavo proprio qualcosa del genere, grazie mille!
È uno studio molto piccolo (poco più di 50 persone intervistate), ma sembra anche chiaro che per quelle persone che nei confronti della ART "were apprehensive and distrustful, and preferred to resist commencing treatments for as long as possible" quelle credenze hanno avuto un effetto negativo sulla loro salute a lungo termine. Quindi sì, una possibile conferma alla mia ipotesi.
Io credo che ora, dopo i risultati così inequivocabili dello START, sia più che mai importante capire da dove vengono credenze sui farmaci così poco aderenti alla realtà dei fatti, in modo da poterle contrastare con un'informazione realistica e corretta e permettere ai neo-diagnosticati di iniziare il più rapidamente e serenamente possibile la terapia.
Ho anche l'impressione che i nostri infettivologi avranno parecchio lavoro da fare.



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