[CROI 2015] J. Coffin: Ricerca di una cura dell’HIV

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Dora
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Re: [CROI 2015] J. Coffin: Ricerca di una cura dell’HIV

Messaggio da Dora » domenica 14 febbraio 2016, 11:01

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ESPANSIONE DEL RESERVOIR IN VIVO PER PROLIFERAZIONE CLONALE


Sui PNAS è uscito un articolo di Francesco Simonetti e tanti altri (fra cui soprattutto Coffin, Mellors e Maldarelli) su una ricerca anticipata al CROI dell’anno scorso, che ci offre l'occasione per affrontare l'altro corno della disputa sulla formazione del reservoir, che la maggior parte dei ricercatori vedono come alternativo alla replicazione attiva e continua nei santuari farmacologici.
Poiché abbiamo appena discusso di santuari e di ongoing replication, vi rimando ai due post di fine gennaio: LA REPLICAZIONE ATTIVA DI HIV NEI *SANTUARI FARMACOLOGICI* CONTRIBUISCE A RIEMPIRE I RESERVOIR IN PERSONE CON VIREMIA SOPPRESSA DALLA ART e DA DOVE VIENE IL REBOUND VIRALE? Una delle controversie più interessanti nella ricerca su HIV di questi anni.

Vi anticipo che di espansione clonale di cellule infettate da virus capace di replicazione, così come di siti di integrazione di HIV, si parlerà molto fra una settimana al CROI, perché queste sono le nuove frontiere della ricerca di una cura.

Per una versione molto sintetica del problema dell’espansione clonale vi suggerisco di rivedere tutta la prima parte del primo post di questo thread, dedicato alla lezione di John Coffin al CROI dell’anno scorso. Per una visione invece un poco più elaborata della teoria oggi dominante, e per capire il concetto di CLONE PREDOMINANTE NEL PLASMA (PPC – predominant plasma clone) su cui tale teoria si basa, mi servirò di una review pubblicata da Frank Maldarelli sull’ultimo numero del Journal of Clinical Investigation e del commento di Michelle Kim e Robert Siliciano che accompagna l’articolo di Simonetti et al. sui PNAS.

Uno dei problemi fondamentali che la ricerca di una cura si trova ad affrontare è quello della persistenza di HIV durante la terapia: sappiamo che esiste – principalmente nei CD4 quiescenti - un reservoir latente composto da popolazioni di cellule infette capaci di produrre virus in grado di replicarsi, ma non conosciamo fino in fondo i meccanismi della persistenza virale.

In particolare, la discussione verte sull’ORIGINE DELLA VIREMIA RESIDUA in persone con viremia stabilmente soppressa dalla ART: viene da cellule quiescenti latentemente infette, che hanno una vita molto lunga e per qualche ragione si riattivano, oppure da cicli continui di replicazione virale che portano all’infezione continua di nuove cellule?
E in questo secondo caso: l’incapacità della ART di prevenire questi nuovi cicli di infezione dipende dal fatto che i farmaci non sono abbastanza potenti? Oppure dal fatto che non penetrano abbastanza bene nei tessuti, per cui si creano dei “santuari farmacologici” in cui continua a verificarsi una replicazione attiva del virus, seppure a livelli molto bassi?

Gli studi di intensificazione della ART fatti negli anni scorsi servivano proprio a rispondere a queste domande e, benché in casi sporadici abbiano evidenziato qualche segnale di replicazione virale attiva, in sostanza sono falliti, poiché non hanno portato a una diminuzione significativa dell’HIV RNA nel sangue, e questo ha fatto quindi propendere a favore dell’ipotesi che la fonte della viremia residua siano cellule cronicamente infette piuttosto che una replicazione continua.
Inoltre, studiando la diversità genetica delle popolazioni di HIV rilevabili in persone in terapia da molti anni, per esempio dopo il rebound della viremia a seguito di un’interruzione terapeutica, si è visto che i virus erano identici a quelli presenti prima dell’inizio della ART, a dimostrazione del fatto che non avevano avuto un’evoluzione e stavano dunque archiviati nel reservoir.

Tutta la storia che raccontiamo oggi comincia proprio con un lavoro di Siliciano pubblicato dieci anni fa che, indagando l'origine della viremia residua, ha rivelato la presenza di sequenze virali clonali nel sangue di persone in terapia da molti anni (PPC – predominant plasma clone), cioè ha visto che un particolare clone di HIV appariva ripetutamente nel sangue SENZA CHE SI POTESSE OSSERVARE UN’EVOLUZIONE DELLA SEQUENZA NEL CORSO DI MESI O ADDIRITTURA ANNI.
Questa osservazione era coerente con una produzione da un clone cellulare espanso piuttosto che con cicli continui di replicazione virale.

Quelle analisi però si basavano su sequenze di virioni trovati nel plasma, quindi non fu allora possibile determinare se quei genomi virali identici fossero prodotti da una singola cellula, dalla progenie clonale di una singola cellula infetta o da tante cellule senza relazione l’una con l’altra infettate tutte da un’identica variante virale.
Ma in seguito sono stati individuati dei CD4 infetti che si espandono clonalmente e si è giunti quindi a ipotizzare che l’espansione clonale possa rappresentare uno dei meccanismi della persistenza di HIV.

L’espansione clonale è una caratteristica di qualunque sistema immunitario sano e avviene durante la risposta a un antigene da parte dei linfociti T - naive o memoria - attivati. Può inoltre dipendere dalla proliferazione omeostatica, che è un processo messo in moto da citochine come l’IL-7 e importante per il normale mantenimento delle dimensioni e della diversità del serbatoio complessivo dei linfociti T e del quale ormai è noto che - almeno in vitro - può contribuire alla persistenza del reservoir latente.

Quello che ancora non è chiaro è se anche le cellule infettate da HIV possano proliferare per espansione clonale, poiché la capacità di replicazione del virus in queste popolazioni di cellule espanse per via clonale e il ruolo dell’espansione clonale nel mantenimento del reservoir sono stati studiati solo negli ultimi anni, ma è ben noto che l’espressione delle proteine virali è citotossica e che, inoltre, il sistema immunitario si attiva per distruggere cellule che esprimono proteine di HIV. Quindi alcuni ricercatori hanno ipotizzato che sia improbabile che i CD4 clonati contengano del virus capace di replicarsi, mentre che i provirus intatti che formano il reservoir si trovino soltanto in cellule non espanse clonalmente.

Quello che già si sapeva è che l’emivita delle cellule produttivamente infette in vivo è molto breve, nell’ordine di un paio di giorni, e che una proteina di HIV, la Vpr, causa l’arresto del ciclo cellulare. Si sapeva inoltre che – in un modello di latenza in vitro – la proliferazione omeostatica può verificarsi senza una sovra-regolazione dei geni di HIV, quindi che – almeno in vitro – è teoricamente possibile che il reservoir latente si espanda senza che venga attivamente prodotto virus.

Sono dunque stati fatti molti studi – fra cui quello pubblicato adesso di Simonetti et al. – per confermare l’esistenza di cellule infette espanse per via clonale e uno strumento particolarmente utile è stato l’amplificazione e sequenziamento dei siti di integrazione del provirus nel genoma umano (una ricerca cui si è dedicato principalmente Maldarelli con il suo laboratorio, ma che è stata fatta anche in Italia da Mauro Giacca all'ICGEB di Trieste, e che sta continuando a fornire informazioni preziose).

L’analisi delle sequenze di HIV nel sangue periferico è complessa, perché molte cellule infette contengono genomi virali difettivi o ipermutati, che contribuiscono a creare un enorme “rumore di fondo”.
Si è comunque visto che HIV tende a integrarsi in modo casuale in geni che sono attivamente espressi e sono sparsi per tutto il genoma. Questo ha permesso di capire che il sito di integrazione consente di distinguere i provirus che derivano da eventi infettivi indipendenti.
Anzi, Maldarelli è riuscito a distinguere i provirus che vengono da cellule diverse perfino quando i punti del genoma in cui il virus si integra sono identici. Ha infatti dimostrato che due provirus che hanno le stesse sequenze e lo stesso sito di integrazione vengono da due cellule diverse se i punti di rottura del DNA alla fine delle sequenze di frammenti di provirus sono diversi. Se invece sono identici anche i punti di rottura del DNA, allora sappiamo che i provirus identici provengono da cellule figlie generate per espansione clonale da una singola cellula infetta.

In un lavoro che ha pubblicato su Science nel 2014 insieme a Coffin, Mellors etc. e che ha dato una svolta alle ricerche degli ultimi due anni, Maldarelli ha fatto un’analisi dei siti di integrazione nei CD4 del sangue periferico di 5 persone in terapia e in tutti e 5 ha trovato prove di espansione clonale delle cellule infette. In particolare, in un paziente ha trovato un enorme numero di siti di integrazione in due geni (BACH2 e MKL2) che sono associati alla crescita delle cellule e che sono connessi allo sviluppo di tumori.

Dal momento che la selezione dei siti di integrazione è casuale, non ci si aspetta di trovare un addensamento di provirus in specifici punti del genoma. Il fatto poi che fossero coinvolti due geni che favoriscono la crescita delle cellule, ha indotto Maldarelli e colleghi a ipotizzare che l’integrazione del provirus in quei punti del genoma alteri l’espressione dei geni favorendo la sopravvivenza e la proliferazione delle cellule. Di qui l’aumento del rischio di cancro, ma anche la possibilità di espansione clonale di cellule infette.

L’espansione clonale è una caratteristica non solo dell’infezione da HIV, ma di tutte le infezioni da retrovirus: la si è confermata ad esempio in HTLV 1 e 2 e in retrovirus che infettano diversi animali. E l’integrazione è stata rinvenuta in cellule tumorali, di leucemie e di tumori solidi. Quindi l’ipotesi che l’inserzione di un retrovirus in geni che promuovono tumori possa favorire la formazione di neoplasie è generalizzata a tutti i retrovirus.

I meccanismi della persistenza virale e dell’espansione clonale possono essere sinteticamente visti come di due tipi (non necessariamente alternativi):

  • 1. mediati dall’immunità – e allora abbiamo proliferazione omeostatica, stimolazione antigenica e immunoattivazione generalizzata;
    2. mediati dal sito di integrazione – e allora abbiamo geni dell’ospite che possono essere coinvolti nella regolazione della crescita e della proliferazione cellulare e che possono portare alla persistenza del virus e all’espansione delle cellule infette.


Il lavoro di Maldarelli del 2014, che è stato confermato da una ricerca di Wagner et al. pubblicata sullo stesso numero di Science e condotta con metodi diversi, ha stimolato discussioni e ricerche in questi ultimi due anni e l’articolo di Simonetti et al. di cui parliamo oggi ne è la diretta continuazione.

Un problema centrale in questo tipo di ricerche è una sorta di “principio di indeterminazione” nell’analisi dei siti di integrazione: quando si indaga insieme anche il DNA dell’ospite, del DNA provirale può essere catturata soltanto una porzione. Questo comporta che non si possa giungere a una conclusione definitiva sull’integrità del provirus di cui si identifica il sito di integrazione, perché non se ne può determinare l’intera sequenza. Quindi non si sa se quel provirus sia capace di replicarsi oppure no.

Per arrivare a determinare la capacità di replicazione dei cloni identificati nel paziente del lavoro precedente (chiamato “paziente 1” e morto per un carcinoma metastatico a cellule squamose), che si integravano in un punto “ambiguo” del DNA del paziente (per questo il sito di integrazione è stato chiamato AMBI-1), Simonetti e colleghi hanno amplificato intere sequenze di provirus AMBI-1 estratto da cellule espanse per via clonale e con questo sono riusciti a infettare cellule sane, dalle quali hanno poi ricavato nuovi virioni, dimostrando che quel clone era perfettamente in grado di replicarsi.
Inoltre, hanno trovato che le cellule espanse clonalmente erano particolarmente abbondanti nelle zone delle metastasi, molto più che nei tessuti linfatici. Questo suggerisce che l’espansione delle cellule infette da AMBI-1 possa essersi verificata in risposta ad antigeni tumorali.

In sostanza, Simonetti e colleghi sono riusciti a dimostrare che DELLE CELLULE INFETTE DA HIV ESPANSE CLONALMENTE POSSONO PERSISTERE ANCHE DOPO MOLTI ANNI DI ART SOPPRESSIVA E PRODURRE VIRUS CAPACE DI INFETTARE.

La frequenza di questo tipo di cellule non è conosciuta, così come ancora da determinare è il ruolo delle popolazioni espanse per via clonale nella formazione e persistenza del reservoir latente di HIV. Ma quello che adesso si sa è che, anche se molti provirus sono difettivi, ce ne sono altri che sono intatti e in grado di replicarsi in cellule espanse per via clonale. Questi possono essere responsabili della viremia residua nel sangue e costituire un’importante ragione della persistenza dei reservoir di HIV.

Se e così, cioè se almeno alcune cellule infette da virus capace di replicarsi possono espandersi per via clonale e se si dimostrerà che quanto visto nel “paziente 1” può essere generalizzato, questo comporta una (ennesima) revisione dello “shock and kill”, poiché NON SI PUÒ PRESUMERE CHE LE RIDUZIONI DEL RESERVOIR OTTENUTE GRAZIE AI FARMACI ANTI-LATENZA SIANO STABILI: ALMENO ALCUNE CELLULE LATENTEMENTE INFETTE POSSONO ESSERE IN GRADO DI PROLIFERARE, QUINDI NON SOLO BISOGNA SOPPRIMERE TUTTA LA REPLICAZIONE VIRALE ED ELIMINARE LE CELLULE DEL RESERVOIR IN CUI SI RIATTIVA LA TRASCRIZIONE DEL VIRUS, MA BISOGNA ANCHE ESSERE CAPACI DI BLOCCARE L’ESPANSIONE CLONALE DI QUALSIASI CELLULA LATENTEMENTE INFETTA RIMASTA.

È chiaro che questo sposta ancora più in alto l’asticella dell’eradicazione.





FONTI:



Blast
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Re: [CROI 2015] J. Coffin: Ricerca di una cura dell’HIV

Messaggio da Blast » domenica 14 febbraio 2016, 18:15

In effetti avevo letto su qualche articolo (non mi ricordo quale, devo ricontrollare), che la condizione di viremia stabilmente soppressa dalla ART non fa altro che "stimolare" le cellule latentemente infette a riattivarsi e diventare produttive, e questo significherebbe matematicamente che, a lungo termine, i reservoir dovrebbero praticamente esaurirsi per "autodistruzione". L'espansione clonale delle cellule latentemente infette spiegherebbe come ciò in realtà non accade. Boh ora mi leggo tutti gli articoli, voglio capire bene.


CIAO GIOIE

Dora
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Re: [CROI 2015] J. Coffin: Ricerca di una cura dell’HIV

Messaggio da Dora » lunedì 15 febbraio 2016, 7:47

Blast ha scritto:L'espansione clonale delle cellule latentemente infette spiegherebbe come ciò in realtà non accade.
È solo uno dei meccanismi che possono spiegare il permanere del reservoir sostanzialmente inalterato anche dopo anni di terapia. Inoltre, alcuni dei meccanismi possono implicarsi l'un l'altro.
Questo schemino viene dalla review di Maldarelli citata nel mio post precedente:

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