Emory, i vaccini e la navigazione in un labirinto complesso

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Dora
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Emory, i vaccini e la navigazione in un labirinto complesso

Messaggio da Dora » sabato 2 marzo 2013, 9:43

Un articolo della Emory University sulla ricerca che si svolge alla Emory University. Autopromozione? Senza dubbio. Però mi è parso ugualmente interessante, perché l’Emory Vaccine Center resta comunque uno dei luoghi al mondo dove si fa la ricerca più avanzata. Se un vaccino contro l'HIV dovesse arrivare, potrebbe ben arrivare da lì.


Navigating a Complex Maze

Quello che non sappiamo dell'HIV può portarci sulla strada giusta per trovare un vaccino

By Mike King | Emory Health | Feb. 28, 2013


Isolato dal suo habitat e sotto la rifrazione di un microscopio elettronico, l’HIV si è guadagnato il rispetto degli scienziati che lo studiano.

L’HIV consiste di due semplici filamenti di materiale genetico insieme a un piccolo numero di enzimi avvolti all’interno di un involucro (envelope) virale. Ha un diametro di un solo decimillesimo di millimetro. Le punte di glicoproteine sul suo involucro esterno danno l’impressione che il virus si espanda per oscurare ogni cosa incontri sulla sua strada, che è esattamente quello che è programmato a fare. Perché un retrovirus come l’HIV possa sopravvivere, deve entrare nelle cellule ospiti e usare il materiale di quelle cellule per riprodursi.

Se non altro, dopo tre decenni che studiamo l’HIV sappiamo che sa svolgere quel compito con notevole efficienza – fondersi con i linfociti e altre cellule che proteggono il corpo, iniettare in loro il proprio core virale e assemblare migliaia di nuovi core virali che impegnano e distruggono il sistema immunitario umano. Se l’HIV è lasciato non trattato, le infezioni – anche del tipo più comune – dilagano, debilitando e infine uccidendo il corpo.

Gli scienziati, a Emory e altrove, hanno creato dei farmaci che aiutano le persone con HIV a vivere più a lungo. Ma la ricerca dell’eradicazione del virus – la scoperta di un vaccino che lo renda innocuo – rimane una grande e talvolta frustrante sfida scientifica.

Nonostante una gran massa di informazioni sull’HIV, ancora non sappiamo come sviluppare un vaccino protettivo efficace contro di esso, in parte perché l’involucro esterno è capace di mutare in modi che possono essere diversi da persona a persona.

“Abbiamo fatto grandi progressi nel campo della salute pubblica e della prevenzione, dei farmaci e dei protocolli di trattamento, così come nello sviluppo di un vaccino - tutte queste sono aree in cui Emory ha dato importanti contributi – ma è possibile che siamo arrivati al punto in cui abbiamo bisogno di sapere che cosa non sappiamo dell’HIV”, dice Eric Hunter.

Esplorare nuove strade

Una massa critica di ricercatori di Emory si sta ponendo queste domande per riuscire a definire la direzione giusta da prendere. “È abbastanza sorprendente mettersi seduti e osservare come tutto è venuto a riunirsi a Emory”, dice James Bradac, capo della ricerca preclinica e dello sviluppo del programma di ricerca sui vaccini al National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), la divisione degli NIH responsabile per la maggior parte della ricerca sull’HIV/AIDS. “Io uso l’analogia con una squadra di baseball. La dirigenza superiore ha dato l’incarico di creare un centro vaccini di livello mondiale e di costruire una squadra solida di grandi ricercatori. E così sono arrivati i finanziamenti per renderlo possibile.

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In luglio, gli NIH hanno annunciato un finanziamento di 7 milioni di dollari a tre ricercatori di Emory – Rafi Ahmed, Bali Pulendran e Guido Silvestri – per fare una ricerca multidisciplinare su come innescare risposte immunitarie che possano impedire o limitare la replicazione dell’HIV nelle cellule ospiti. La ricerca, finanziata come parte del Center for HIV/AIDS Vaccine Immunology, interseca il lavoro di questi ricercatori e spiega bene quali direzioni di ricerca gli scienziati di Emory stiano esplorando.

Proprio l’anno scorso, un gruppo di ricercatori di Emory ha ricevuto un finanziamento – 6 milioni di dollari all’anno per almeno 5 anni – per indagare come costruire un miglior vaccino contro l’HIV usando il virus dell’immunodeficienza delle scimmie (SIV) come modello nei primati non umani. L’SIV ha affascinato per molto tempo gli scienziati, perché alcuni primati infettati dal virus non progrediscono mai fino alla fase di malattia conclamata. Con questi finanziamenti, gli scienziati dell’Emory Vaccine Center stanno lavorando insieme per capire come indurre delle risposte di anticorpi neutralizzanti nelle cellule che combattono contro i virus. Per esempio, stanno sperimentando un potente e innovativo vaccino a nanoparticelle costruito nel laboratorio di Pulendran (le nanoparticelle sono minuscole particelle super-reattive, che possono trasportare l’innesco di una risposta immunitaria direttamente nelle cellule ospite) e nuove citochine adiuvanti sviluppate nel laboratorio di Rama Amara (le citochine sono piccole molecole proteiche di segnalazione cellulare utilizzate nella comunicazione fra una cellula e l’altra).

L’obiettivo di questo lavoro è trovare nuovi approcci per aumentare l’immunità all’infezione da SIV attraverso la barriera delle mucose, perché l’infezione attraverso il tessuto delle mucose durante il sesso è il meccanismo primario di diffusione dell’HIV negli esseri umani.


Gli ostacoli lungo la strada

L’ottimismo ingenuo degli anni ’80 riguardo allo sviluppo di un vaccino è svanito da tempo. Nonostante i progressi, l’epidemia di AIDS è lungi dall’essere vinta, soprattutto nel mondo in via di sviluppo.

Nei Paesi ricchi, dove l’accesso ai farmaci che servono a trattarlo in genere non è un problema, l’HIV non è più visto come la minaccia di un tempo. Nel 1995 più di 50.000 americani morivano ogni anno di AIDS. Oggi il bilancio annuale delle vittime ammonta a meno di 20.000, più o meno lo stesso numero di persone che muoiono di cancro al pancreas. Tuttavia, circa 60.000 persone continuano a infettarsi ogni anno negli Stati Uniti.

Nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto nell’Africa Sub-sahariana, il bilancio rimane terribile. Nel 2010 si stimava che 34 milioni di persone al mondo vivessero con l’HIV/AIDS e che circa il 10% di loro fossero bambini. In quello stesso anno sono morte circa 2 milioni di persone. L’HIV lascia milioni di bambini orfani e distrugge intere comunità nei Paesi poveri, dove continua a diffondersi prevalentemente per via eterosessuale.

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Anche con farmaci contro l’HIV che prolungano la vita, dice Hunter, non si vede “alcun modo per tirarci fuori da questa malattia”. E poiché le misure di salute pubblica per prevenire l’infezione nei Paesi in via di sviluppo restano miseramente sotto-finanziate, la necessità di un vaccino è maggiore oggi che in ogni altro momento.

Dall’iniziale speranza di sviluppare farmaci antivirali come quelli usati contro altre malattie trasmesse sessualmente ai vaccini che hanno come obiettivo i geni e specifiche risposte cellulari, l’oggetto della ricerca di un vaccino è cambiato varie volte, dice Hunter. Ad oggi, i vaccini che sono arrivati fino alla sperimentazione su esseri umani hanno avuto successi molto modesti.

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Seguire la strada mai presa

Più di recente, gli scienziati che fanno ricerca sui vaccini sono tornati a concentrarsi sui primi eventi nel ciclo di infezione dell’HIV, e precisamente sul modo in cui il sistema immunitario risponde alle sfide presentate dal virus. C’è qualche speranza, dice Hunter, che combinazioni di sostanze – e nuovi modi per trasportarle (come gli esperimenti di Pulendran sulle nanoparticelle) – possano dare un alto grado di protezione contro la capacità del virus di infettare le cellule e di mutare prima che il sistema immunitario sia in grado di armarsi contro di lui.

Per Cynthia Derdeyn, il nuovo oggetto della ricerca la riporta ai tempi in cui era borsista post-dottorato nel laboratorio di Hunter alla University of Alabama, Birmingham, prima di arrivare a Emory nel 2004. Fu là che i ricercatori iniziarono a capire che il virus che viene trasmesso da una persona all’altra può avere delle “proprietà speciali” che potrebbero essere sfruttate per sviluppare un vaccino, dice.

“Otto anni dopo ancora non sappiamo che cosa siano quelle proprietà speciali”, dice Derdeyn. “E continuiamo a non avere una comprensione sufficiente del modo in cui l’HIV si trasmette per via sessuale”. Derdeyn ritiene che la risposta si trovi in parte nella ricerca attualmente in corso sul modo in cui il virus si trasmette fra coppie eterosessuali in Africa.

La trasmissione fra partner omosessuali è stato uno dei primi obiettivi della ricerca sull’HIV e ha portato a importanti scoperte sul virus. Più di recente, Derdeyn e Hunter hanno rivolto l’attenzione alla trasmissione eterosessuale in africa, dove sono state trovate diverse varianti del virus.

Una gran parte di quella ricerca si basa su un ampio archivio di informazioni sanitarie e di reagenti compilato da Susan Allen, un’altra ricercatrice che è passata dall’Università dell’Alabama a Emory. Derdeyn e Hunter hanno usato campioni raccolti da Allen in Rwanda e Zambia presso “coppie sierodiscordanti” – partner sessuali maschili e femminili, uno dei quali è HIV positivo e l’altro no – per dimostrare che l’HIV il più delle volte finisce in un collo di bottiglia genetico durante la trasmissione eterosessuale.

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Usando sequenze di DNA del gene che codifica per una glicoproteina sullo strato di copertura esterno dell’HIV, i ricercatori di Emory hanno scoperto che una singola variante virale in ciascun donatore stabilisce l’infezione nel partner. Queste varianti trasmesse sono tutte geneticamente distinte, ma hanno nelle loro glicoproteine delle proprietà in comune, che possono renderle più vulnerabili a un vaccino. Queste scoperte fanno ipotizzare che l’infezione possa essere innescata da specifiche varianti virali più che per caso.

Comprendendo queste caratteristiche del virus, gli scienziati potrebbero essere capaci di colpirle con dei microbicidi o di adattare un vaccino che si dimostri molto più efficace contro la trasmissione eterosessuale.

“All’inizio degli anni 2000, solo pochi ricercatori stavano studiando i virus africani”, dice Derdeyn. “e per lo più utilizzavano i dati per studiare il collegamento nella trasmissione fra partner da una prospettiva di salute pubblica. Noi abbiamo deciso che era invece una buona opportunità per dare uno sguardo più in profondità nelle caratteristiche del virus trasmesso”.

Questa è la natura della scoperta.
All’alba del quarto decennio dell’epidemia di AIDS come la conosciamo, forse il più grande ostacolo all’eradicazione dell’epidemia consiste nel riconoscere che abbiamo ancora molto da imparare.