2012 [2014]_Il punto su reservoir, latenza ed eradicazione

Ricerca scientifica finalizzata all'eradicazione o al controllo dell'infezione.
nordsud
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Re: 2012 [2013]_Il punto su reservoir, latenza ed eradicazio

Messaggio da nordsud » mercoledì 16 ottobre 2013, 7:50

http://www.hiv-reservoir.net/index.php/ ... tence.html


Scrivono quanto segue:

The possibility of ongoing HIV replication on HAART has been supported by several observations (1):



-presence of excess unintegrated HIV DNA in resting CD4+ T cells;

-cross-infection between resting and activated CD4+ T cells;

-higher HIV burden in lymphoid tissues than in blood;

-cell-to-cell transmission of HIV.




Saranno anche esperti e dotti nel loro campo ma si sono dimenticati di indicare che quasi sicuramente la viremia residua esiste semplicemente perchè il farmaco non arriva dentro tutte le cellule ( il virus viene assemblato dentro e non fuori dalla membrana cellulare ).
Nel 2013 dover leggere ancora qualcosa del genere fa venire il mal di mare.



Dora
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Re: 2012 [2013]_Il punto su reservoir, latenza ed eradicazio

Messaggio da Dora » mercoledì 16 ottobre 2013, 9:06

nordsud ha scritto:http://www.hiv-reservoir.net/index.php/ ... tence.html


Scrivono quanto segue:

The possibility of ongoing HIV replication on HAART has been supported by several observations (1):



-presence of excess unintegrated HIV DNA in resting CD4+ T cells;

-cross-infection between resting and activated CD4+ T cells;

-higher HIV burden in lymphoid tissues than in blood;

-cell-to-cell transmission of HIV.




Saranno anche esperti e dotti nel loro campo ma si sono dimenticati di indicare che quasi sicuramente la viremia residua esiste semplicemente perchè il farmaco non arriva dentro tutte le cellule ( il virus viene assemblato dentro e non fuori dalla membrana cellulare ).
Nel 2013 dover leggere ancora qualcosa del genere fa venire il mal di mare.
Non per difendere a tutti i costi Chun e Fauci, ma a me pare proprio che l'abbiano detto. Precisamente nel terzo punto della sintesi di Lafeuillade (higher HIV burden in lymphoid tissues than in blood - come sappiamo, il tessuto linfatico è raggiunto da molti farmaci con maggior difficoltà che altri comparti e lì può esserci replicazione virale attiva mentre altrove è perfettamente controllata dalla ART). E trovo anche interessante che la trasmissione cellula-a-cellula, che è ancora molto dibattuta, loro la prendano invece per assodata come fonte di viremia residua.
Il lavoro di Hatano - Deeks di cui si parla nel post di Lafeuillade è semplicemente l'articolo pubblicato adesso su JID relativo alla ricerca presentata al CROI nel marzo scorso e ne abbiamo parlato nel thread [CROI 2013]Hatano-Deeks_ART, infiammazione, intensificazione.
Il commento di Chun e Fauci che lo accompagna mi pare esemplare per come spiega con semplicità quel che sappiamo adesso sulla persistenza virale. Appena possibile lo traduco.



Dora
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Re: 2012 [2013]_Il punto su reservoir, latenza ed eradicazio

Messaggio da Dora » giovedì 17 ottobre 2013, 17:27

Dora ha scritto:Il commento di Chun e Fauci che lo accompagna mi pare esemplare per come spiega con semplicità quel che sappiamo adesso sulla persistenza virale. Appena possibile lo traduco.
Viral Persistence in HIV Infection: Much Known, Much to Learn

(…) Molte delle strategie terapeutiche [volte all’eliminazione dell’HIV dalle persone infette] proposte di recente intendono colpire un serbatoio di linfociti T CD4+ quiescenti e latentemente infetti nelle persone trattate con la ART. È stato più volte dimostrato che questo reservoir virale latente persiste nella grande maggioranza degli, se non in tutti gli individui infetti che ricevono la ART, e questo nonostante anni di sostenuta soppressione della viremia plasmatica mediata dalla ART e misurata con test sensibili.

Anche se i ricercatori del campo concordano nel ritenere che la persistenza del reservoir latente di HIV sia uno dei maggiori ostacoli all’eradicazione del virus nelle persone infette in terapia, diversi gruppi di ricerca hanno anche ipotizzato che il reservoir dell’HIV non sia un’entità statica e che, dal momento che le cellule infette subiscono un progressivo deterioramento, possano persistere dei bassi livelli di replicazione dell’HIV attiva/residua in persone in terapia e che questo contribuisca a riempire in modo continuativo il reservoir.

La questione se la replicazione virale attiva/residua esista nelle persone aviremiche in ART è stata oggetto di intensi dibattiti negli ultimi anni. Dal momento che le sostanze terapeutiche quali i composti che hanno lo scopo di “ripulire” il reservoir possono avere soltanto un effetto limitato sui CD4 produttivamente infetti e/o sulla diffusione dell’HIV alle cellule circostanti, delineare con precisione i meccanismi attraverso i quali l’HIV riesce a persistere nelle persone infette in terapia rappresenta un primo passo cruciale verso la cura.

In questo numero del Journal Hatano et al. hanno esaminato le conseguenze sia nell’ospite, sia virologiche, dell’intensificazione di una ART convenzionale in persone con HIV che avevano la viremia nel plasma soppressa al di sotto del limite di rilevabilità (< 40 copie di HIV RNA/mL). In uno studio randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo che ha coinvolto 31 persone con HIV, gli autori hanno indagato se l’intensificazione della terapia con l’inibitore dell’integrasi dell’HIV raltegravir riusciva a diminuire in modo significativo i livelli di replicazione virale attiva/residua e di attivazione immunitaria.

Usando un test virologico altamente sensibile (droplet digital PCR) capace di rilevare i circoli 2-LTR dell’HIV DNA, Hatano et al. hanno dimostrato un aumento transitorio, ma statisticamente significativo, nella frequenza di cellule che ospitavano i circoli 2-LTR nel gruppo che ha intensificato la ART con il raltegravir, rispetto al gruppo che ha ricevuto il placebo. Inoltre, gli autori hanno dimostrato che i livelli di D-dimero, un marker di infiammazione e coagulazione che si è visto che fornisce una misura predittiva di morbilità e mortalità nelle persone con HIV, erano significativamente diminuiti nel gruppo del raltegravir.

Sulla base di questi dati, gli autori hanno concluso che bassi livelli di replicazione attiva/residua dell’HIV persistono in alcune persone in terapia convenzionale e che di questi risultati si dovrebbe tener conto quando si progettano nuove strategie terapeutiche volte all’eradicazione del virus.

La persistenza di un reservoir dell’HIV contenente virus capace di replicazione è stata documentata per la prima volta nel 1997 e a lungo si è pensato che questo reservoir sia uno degli ostacoli principali all’eradicazione dell’HIV nelle persone in ART. Tuttavia – fin dal 1997 – si è anche ipotizzato che, nonostante una soppressione sostenuta della viremia nel plasma, bassi livelli di replicazione attiva/residua dell’HIV possano persistere in una certa percentuale di persone aviremiche in ART.

Questa possibilità è stata in parte supportata da prove:

  • 1. la presenza di un eccesso di HIV DNA non integrato nei CD4 quiescenti;
    2. l’infezione crociata fra CD4 quiescenti e attivati;
    3. un maggior carico di HIV nei tessuti linfatici che nel sangue periferico;
    4. la trasmissione dell’HIV da cellula a cellula in presenza di farmaci antiretrovirali.


In anni recenti, l’introduzione del raltegravir e lo sviluppo di test molto sensibili, capaci di rilevare l’HIV RNA nel plasma a livelli inferiori alle 50 copie/mL, hanno alimentato discussioni sui meccanismi della persistenza dell’HIV e le ragioni della nostra incapacità ad eradicare completamente il virus con la sola ART.

Più di recente, sono stati fatti degli studi per capire se l’intensificazione della ART convenzionale con raltegravir poteva diminuire ulteriormente la viremia plasmatica residua (1-49 copie di HIV RNA/mL). Il razionale di questi studi era l’idea che se la replicazione attiva/residua dell’HIV avviene davvero nelle persone in ART, allora l’intensificazione della terapia con raltegravir dovrebbe impedire nuovi cicli di infezioni de novo e comportare un’ulteriore diminuzione della viremia residua nel plasma.

Alcuni studi che avevano adottato la viremia plasmatica residua (1-49 copie di HIV RNA/mL) come misura primaria dell’efficacia dei regimi farmacologici intensificati non hanno dimostrato alcuna ulteriore diminuzione dell’HIV nel plasma come risultato dell’aggiunzione di raltegravir e hanno portato alla conclusione che non si ha replicazione attiva/residua dell’HIV finché le persone rimangono aviremiche (<50 copie di HIV RNA/mL).

Altri studi impostati in modo simile, invece, hanno dimostrato che la frequenza di cellule infette che ospitavano DNA o RNA virale integrato diminuiva dopo l’intensificazione della terapia, nonostante non si vedesse alcun cambiamento nella viremia plasmatica residua.
In particolare, uno studio condotto da Buzon et al. ha adottato un unico marker del DNA virale, i circoli 2-LTR, come prova di replicazione attiva dell’HIV. I circoli 1-LTR o 2-LTR si formano in genere come conseguenza di un’infezione abortiva, subito dopo la circolarizzazione del DNA lineare non integrato da parte degli enzimi di riparazione del DNA presenti nell’ospite. Anche se è un argomento controverso, sulla base di studi che hanno utilizzato campioni clinici tratti da individui in ART, si ritiene che l’emivita degli 1-LTR o 2-LTR dell’HIV DNA circolarizzato sia breve (giorni o settimane). Pertanto, la presenza di circoli 2-LTR nei CD4 di persone in ART e aviremiche farebbe pensare che le cellule siano soggette a nuovi cicli di infezione, perché si avrebbe replicazione virale attiva/residua in assenza di una viremia rilevabile, e che, inibendo l’integrazione del DNA virale, il raltegravir causi un aumento nel livello di cellule che ospitano DNA virale circolarizzato.

In uno studio in aperto, Buzon et al. hanno dimostrato un aumento transitorio nella frequenza di cellule che portavano circoli 2-LTR in circa il 30% dei partecipanti allo studio che ricevevano ART convenzionale più raltegravir, così come una concomitante diminuzione della frazione di CD8 che esprimevano marker di attivazione immunitaria.

Lo studio di Hatano et al. in questo numero di JID allarga le osservazioni fatte da Buzon et al. e, nonostante il numero relativamente basso di persone studiate, è convincente, perché è una sperimentazione randomizzata, in doppio cieco, controllata con placebo e ha utilizzato dei test virologici molto sensibili e nuovissimi per rilevare i circoli 2-LTR.
Inoltre, gli autori hanno dimostrato un aumento transitorio nei livelli dei circoli 2-LTR, più spiccato 1 settimana dopo l’intensificazione della ART, nel 60% dei soggetti che hanno assunto raltegravir.

Dal momento che lo studio di Buzon et al. è stato accolto con un certo scetticismo e che il dibattito sul meccanismo della persistenza virale in persone aviremiche è aperto, quest’ultimo studio di Hatano et al. dovrebbe stimolare grande interesse nella comunità dei ricercatori dell’HIV/AIDS.

Da notare che i dati presentati da Hatano et al. hanno dimostrato che l’aumento dei circoli 2-LTR dopo l’intensificazione della ART è stato osservato con più frequenza nelle persone che seguivano un regime contenente inibitori della proteasi, confermando così i risultati di Buzon et al.

Anche se Hatano et al. non hanno rilevato una diminuzione significativa dei livelli dell’attivazione immunitaria misurati dai livelli di interleuchina-6 e dalla frequenza di CD8 attivati nel gruppo del raltegravir rispetto a quello del placebo 24 settimane dopo l’intensificazione della terapia, hanno però notato un declino dei livelli di D-dimero in chi ha ricevuto la ART convenzionale più il raltegravir: ciò suggerisce che la replicazione attiva/residua dell’HIV possa essere responsabile, almeno in parte, dell’aumento di rischio cardiovascolare anche nelle persone aviremiche.

È importante sottolineare che questo studio non ha rilevato alcun cambiamento nella viremia plasmatica residua dopo l’intensificazione nel gruppo del raltegravir. Questo indica che un marker virologico usato comunemente – la viremia plasmatica residua – da solo non è in grado di descrivere in modo accurato le dinamiche della replicazione dell’HIV in vivo.

Quando si interpretano i dati presentati in questo studio, bisogna tener presente diverse precisazioni.

La prima e più importante è che lo studio ha esaminato solo un piccolo numero di soggetti. Dal momento che i dati presentati hanno dimostrato uno strettissimo range dinamico dei livelli dei circoli 2-LTR e l’eliminazione di una “deviazione estrema” ha influenzato la significatività statistica dello studio, per confermare questi risultati saranno necessarie sperimentazioni cliniche che coinvolgano un numero di soggetti molto maggiore (che includano simili numeri di persone che prendano regimi di ART contenenti IP, sia nel gruppo sperimentale, sia in quello del placebo).

La seconda precisazione riguarda i test/le procedure molecolari per rilevare i circoli 2-LTR: questi dovranno essere migliorati e standardizzati, soprattutto perché attualmente gruppi di ricerca diversi usano molti approcci tecnici differenti.

La terza precisazione riguarda la rilevanza clinica – se esiste – delle osservazioni fatte: si deve capire se c’è una rilevanza clinica, perché la prova definitiva di un risultato clinico avverso derivante da bassi livelli di replicazione attiva/residua dell’HIV in assenza di viremia rilevabile nel plasma ancora non c’è. (…)





Molti più particolari sull'articolo di Hatano, Deeks e colleghi - Increase in 2–Long Terminal Repeat Circles and Decrease in D-dimer After Raltegravir Intensification in Patients With Treated HIV Infection: A Randomized, Placebo-Controlled Trial - possono essere letti nel thread [CROI 2013]Hatano-Deeks_ART, infiammazione, intensificazione.

L'articolo di Buzon et al. cui Chun e Fauci fanno riferimento è: HIV-1 replication and immune dynamics are affected by raltegravir intensification of HAART-suppressed subjects.



Dora
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Re: 2012 [2014]_Il punto su reservoir, latenza ed eradicazio

Messaggio da Dora » martedì 3 giugno 2014, 11:06

Quando lo scorso marzo dal Siliciano Lab è arrivata la conferma di quanto si era osservato durante i trial clinici, e cioè che c’era uno sfasamento nell’effetto che le sostanze anti-latenza hanno nei modelli cellulari in vitro e quello che hanno ex vivo nei CD4 quiescenti di persone infette in terapia soppressiva, una nuova speranza veniva parallelamente offerta dalla possibilità di un uso congiunto di farmaci anti-latenza diversi.
Fu facile, allora, prevedere che stesse prendendo forma il concetto di terapia combinata anti-latenza e immaginare che potesse nascere l’acronimo cALT = combined Anti-Latency Therapy/Treatment.

Su Nature Reviews - Drug Discovery, la giornalista scientifica Alla Katsnelson ha pubblicato pochi giorni fa un breve articolo – Setback prompts rethink of latency-reversing strategy to eliminate HIV infection - che fa il punto della situazione sulle sperimentazioni fatte finora sui farmaci anti-latenza. È un lavoro semplice e molto chiaro, che mi sembra valga la pena tradurre per avere una visione di sintesi su alcune delle ricerche che stiamo seguendo in questa sezione del forum – e anche perché conferma che l’idea della cALT sta davvero prendendo consistenza.



Una battuta d’arresto spinge a ripensare alla strategia di inversione della latenza per eliminare l’infezione da HIV

I risultati contrastanti della prima generazione di sostanze che colpiscono l’infezione latente da HIV portano gli esperti a considerare combinazioni terapeutiche e nuovi test

I farmaci antiretrovirali sono stati efficaci in modo spettacolare nel controllare l’HIV ostacolando la capacità del virus di infettare le cellule, ma non distruggono i reservoir di cellule latentemente infette, che rimangono il principale ostacolo alla cura.
Una soluzione attraente a questo problema è stata quella delle sostanze che invertono la latenza (Latency Reversing Agents – LRAs), capaci di riattivare il virus dormiente, stanandolo dal suo nascondiglio in modo che possa essere colpito e ucciso.

Tuttavia, la prima generazione di LRA è di recente incappata in qualche difficoltà.

Uno studio ha dimostrato che quattro delle sostanze considerate migliori, che avevano mostrato delle potenzialità nei modelli di colture cellulari e negli studi clinici preliminari, hanno efficacia minima sulle cellule prelevate dai pazienti (Nature Med. 20, 425–429; 2014). Una quinta sostanza, per quanto più potente, è probabilmente troppo tossica per poter essere utilizzata in clinica.

Per molti che lavorano in questo campo, questi e altri dati indicano la necessità di un approccio “shock and kill” combinato, così come dello sviluppo di farmaci migliori. Ma i dati clinici potrebbero ancora salvare l’approccio con una singola sostanza. “Non sono del tutto convinto che questi test ex vivo colgano in pieno l’effetto dei farmaci in vivo” – dice Thomas Rasmussen, dell’università danese di Aarhus. “C’è un altro tipo di test che ci sta portando a una conclusione che non è necessariamente la medesima cui stanno arrivando altri laboratori”.

Il primo attacco in vivo all’approccio dei LRA venne una decina d’annoi fa, quando David Margolis, ora alla University of North Carolina, e colleghi trattarono quattro pazienti con acido valproico, un inibitore dell’iston-deacetilasi (Lancet 366, 549–555; 2005). Questi risultati – interessanti, ma preliminari – non furono confermati in sperimentazioni successive, ma diedero impulso a un impegno più ampio verso l’identificazione di nuovi LRA.
Per esempio, nel 2012 Margolis e colleghi pubblicarono uno studio molto stimolante, in cui si mostrava che il vorinostat, un altro inibitore dell’iston-deacetilasi, aumentava l’espressione dell’HIV RNA nei CD4 quiescenti in otto pazienti (Nature 487, 482–485; 2012).
Tuttavia, nonostante dati incoraggianti su diversi HDACi e altre piccole molecole nei modelli in vitro – compresa una positiva attività della romidepsina su cellule tratte da pazienti riferita lo scorso aprile (PLOS Pathog., 10 Apr 2014) – i dati clinici che ne sono seguiti sono stati contrastanti.

In una ricerca recente, Robert Siliciano e colleghi della Johns Hopkins University School of Medicine, Maryland, si erano prefissi di studiare gli effetti del disulfiram su 16 persone con HIV. il disulfiram, che è usato per trattare l’alcolismo, aveva mostrato una certa attività in un modello cellulare, ma non ha avuto alcuna efficacia nel trial clinico pilota (Clin. Infect. Dis. 58, 883–890; 2014). “Questo è proprio quello che ci ha spinto a dire ‘OK, dobbiamo tornare indietro e vedere se questi modelli ci dicono davvero quello che accade nelle cellule dei pazienti” – dice Siliciano.

Nei test basati su cellule tratte dai pazienti che hanno sviluppato, come riferito nel recente articolo su Nature Medicine, né i tre HDACi che hanno testato – vorinostat, panobinostat e romidepsina – né altre due sostanze – il disulfiram e la briostatina-1 – hanno indotto produzione virale, il gold-standard per misurare la riduzione della latenza.
Tutti, tranne la briostatina-1, hanno indotto solo un piccolo aumento dei livelli di HIV mRNA nelle cellule tratte da 13 persone con HIV. “Se l’attivazione dei linfociti T causa un aumento di 100 volte nell’HIV mRNA, queste sostanze possono causare un aumento di 2 volte” – dice Siliciano.
La briostatina-1 ha prodotto un aumento da 3 a 5 volte nei livelli di mRNA, ma ha anche causato una significativa tossicità alle cellule. “Non è chiaro se questo farmaco sarà mai abbastanza sicuro da usare in questo contesto” – nota Siliciano.
Jerome Zach, direttore del Center for AIDS Research della University of California, Los Angeles, sta invece sviluppando degli analoghi di sintesi della briostatina-1 – chiamati “briologhi” – con l’obiettivo di minimizzarne la tossicità.


Combinazione di LRAs

“È possibile che questi farmaci funzionino se usati in qualche combinazione” – dice Siliciano. “È solo che, fino ad ora, presi singolarmente non sono stati particolarmente efficaci”. E questo non dovrebbe sorprendere – aggiunge: la terapia combinata è stata storicamente la strada da percorrere con l’HIV. Il suo gruppo ha già iniziato a testare combinazioni di sostanze nei modelli costruiti con cellule prese dallo stesso paziente, anche se è un processo molto macchinoso – dice.
La Merck sta utilizzando screening detti “ad alto rendimento” per identificare combinazioni di LRA – dice Daria Hazuda, capo delle ricerche per le malattie infettive ai Laboratori di ricerca Merck. L’espressione del virus latente è modulata dalla cromatina, e ciò la rende suscettibile di essere colpita dagli HDACi, ma viene anche ristretta attraverso altri meccanismi al livello della trascrizione e forse anche della traduzione, quindi colpire una combinazione di meccanismi potrebbe produrre i risultati migliori. “Stiamo iniziando a raccogliere alcune idee interessanti su come ottimizzare delle combinazioni in modo più sistematico e razionale” – dice.
Anche una manciata di altre società, compresa Gilead Sciences, stanno lavorando in questo campo – aggiunge.

Studi su scimmie infettate dal virus dell’immunodeficienza scimmiesca (SIV) e su topi umanizzati saranno cruciali per capire come i LRA lavorino in vivo – dice Margolis. Ci sono in corso degli studi su una combinazione di vorinostat e prostratina, così come su altri HDAC, agonisti della protein-chinasi C (PKC), inibitori del bromodomain e altri composti come l’ingenol, testati da soli o in combinazione. “Degli studi di combinazione su esseri umani, a mio parere, non sono ancora sicuri” – aggiunge.

Invece, Rasmussen continua a sperare in sostanze singole. Al CROI lo scorso marzo ha riferito che il panobinostat – uno dei farmaci che hanno mostrato una attività minima nel recente studio di Siliciano – ha indotto un aumento nei livelli di HIV mRNA associati alle cellule e nel plasma in un trial su 15 pazienti (CROI Poster Abstract 438LB).
“Noi pensiamo che questo composto sia in grado di attivare la produzione di virus in misura tale che effettivamente si producano particelle virali, che vengano poi rilasciate nel flusso sanguigno” – sostiene Rasmussen.

Altri trial su singoli LRA sono ancora in atto. Ricercatori australiani hanno riferito al CROI nel 2013 che il vorinostat aveva stimolato i livelli di mRNA associato alle cellule in 18 pazienti su 20, e anche il team di Margolis sta conducendo dei trial di follow-up degli studi clinici sul vorinostat. All’inizio di quest’anno, poi, è partito un trial sulla romidepsina condotto dall’AIDS Clinical Trials Group.
Anche Rasmussen e colleghi hanno di recente iniziato un trial sulla romidepsina somministrata insieme a un vaccino terapeutico, con l’idea di stimolare le risposte dei CD8 contro il virus riattivato.


Servono più test

Le scoperte fatte ultimamente da Siliciano mettono in evidenza la necessità di modelli migliori, che facciano migliori predizioni rispetto ai modelli usati fino ad oggi – aggiunge Werner Greene, un ricercatore della University of California, San Francisco. “Quello di cui abbiamo bisogno è una popolazione di cellule tratte dai pazienti che siano molto più pure ed omogenee rispetto a quelle che possiamo avere in numero illimitato” – dice, osservando che lui stesso sta collaborando allo sviluppo di tali cellule, mediante l’utilizzo di una tecnologia che permette di indurre cellule staminali pluripotenti.
Hazuda concorda sul fatto che testare i farmaci su cellule tratte da pazienti è importante, ma invita alla cautela, poiché non è ancora sicuro che i test sulle cellule dei pazienti siano migliori di altri tipi di esperimenti. “Finché non otterremo davvero dati in vivo per costruire dei modelli standardizzati sarà difficile dire che un test è più utile o fa predizioni migliori di un altro” – dice.

Ci sono diverse altre questioni ancora da risolvere. Per esempio, non è chiaro quanto virus sia necessario riattivare. “La misurazione importante, probabilmente, è quanto antigene viene esposto dalla cellula infetta “ – dice Margolis. “cioè, la cellula può essere identificata e distrutta?” Anche questo rende difficile valutare funzionalmente le risposte ai LRA.

Un’altra questione, poi, è che sia i modelli in vitro, sia i test ex vivo derivati dai pazienti come quello di Siliciano, usano linfociti T quiescenti circolanti. Ma le cellule latenti si ritiene stiano prevalentemente nei tessuti, come l’intestino e il sistema nervoso centrale, ed è possibile che queste cellule rispondano ai farmaci in modo diverso.

Può anche essere difficile trovare un equilibrio fra la riattivazione del virus e l’attivazione dei linfociti T, che inverte la latenza, ma può scatenare una tempesta di citochine. “Questa biologia del virus è così inestricabilmente legata all’attivazione dei linfociti T, che rischia di essere difficile trovare sostanze che stimolino l’espressione del virus senza però attivare la cellula” – dice Greene.

Nonostante tutto questo, i ricercatori sono ottimisti sul fatto che l’approccio con i farmaci anti-latenza possa funzionare. “Dobbiamo essere realisti e guardare al progresso che abbiamo fatto con un investimento che – relativamente parlando – non è stato enorme” – dice Margolis. “Questo campo di ricerca sta solo iniziando a muoversi”.



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