USO DI METAMFETAMINA, PERSISTENZA DI HIV E IMMUNO-ATTIVAZIONE IN PERSONE CON INFEZIONE DA HIV CONTROLLATA DALLA cART
Una premessa: questo thread non è dedicato al chemsex. Chi desidera discutere di quell'argomento troverà facilmente un thread in Pub o potrà aprirne uno nel primo forum, ma qui vorrei soltanto analizzare una delle ragioni di preoccupazione che stanno portando associazioni, attivisti e forse anche qualche medico ad affrontare il tema del chemsex con i loro utenti o pazienti: sei in terapia, controlli bene la replicazione del virus e vuoi fare qualcosa per migliorare lo stato di attivazione immunitaria e di infiammazione? Bene, tieni conto che usare metamfetamina o cocaina forse facilita le tue relazioni sessuali e ti fa sentire socialmente più connesso e integrato, ma ti porta nella direzione opposta a quella che stai seguendo con la terapia.
Sappiamo che ci sono diversi fattori che causano attivazione immunitaria durante l’infezione da HIV quando la viremia è messa sotto controllo dalla ART:
- - la traslocazione microbica;
- la replicazione virale attiva residua;
- le risposte immuni dell’ospite contro il virus;
- la perdita della funzione immunoregolatoria delle cellule;
- la persistenza di elevati livelli di interferone;
- una serie di co-fattori che possono peggiorare l’attivazione immunitaria (le co-infezioni, soprattutto con CMV e HCV; forse anche elementi del cosiddetto viroma endogeno; l’abuso di sostanze quali cocaina, crack o metamfetamina).
L'uscita contemporanea di due lavori di Adam Carrico e altri ricercatori della University of Miami, insieme ad altre università americane, dedicati ad indagare gli effetti dell'uso di metamfetamina sui reservoir di HIV e sull'attivazione immunitaria oggi mi permette di dedicare attenzione all'ultimo punto dell'elenco.
Ma prima di parlare dei due articoli di Carrico e colleghi, usiamo un lavoro di Marta Massanella e colleghi della University of California San Diego, uscito nel 2015 sui Scientific Reports, per inquadrare l'argomento.
Nonostante si conoscano da tempo gli effetti che la metamfetamina ha sul sistema nervoso centrale e se ne conosca la capacità di causare deterioramento neurocognitivo, i suoi effetti sul sistema immunitario sono stati studiati di meno. Dai modelli sui topi, però, si sa che esercita una funzione immunosoppressiva inibendo la presentazione dell'antigene, rendendo poco efficace la fagocitosi e riducendo la capacità dei macrofagi di uccidere i microbi. Si è anche visto che, se si espongono in vitro dei linfociti T primari (cioè estratti da esseri umani e non clonati in laboratorio) all'azione della metamfetamina, questa induce stress ossidativo nei mitocondri e ciò comporta una disfunzionalità delle cellule.
Si sa inoltre che nelle persone con HIV l’uso di metamfetamina si associa con un ritardo sia nell’inizio della terapia antiretrovirale, sia nella soppressione della viremia dopo l’inizio della ART, con livelli più alti di HIV RNA nel sangue, un aumento nella frequenza di mutazioni resistenti, una accelerata progressione verso l’AIDS e un generico aumento della mortalità (cioè per cause AIDS- e non AIDS-correlate). Inoltre, si associa con un aumento del rischio di contrarre altre infezioni e di trasmettere l’HIV.
Data la quantità di fattori confondenti, non è però chiaro se l’associazione fra uso di metamfetamina e la progressione e la trasmissione dell’infezione siano semplicemente una conseguenza di un inizio ritardato della terapia antiretrovirale, di una ridotta aderenza alla ART, di scarsa o cattiva nutrizione e di un aumento dei comportamenti a rischio associati al consumo, o se invece esistano uno o più meccanismi biologici sottostanti a queste associazioni.
Si è osservato in vitro che la metamfetamina si associa con un aumento della trascrizione cellulare di HIV, dell’attivazione immunitaria e dell’espressione del CCR5. Quindi l’ipotesi da cui Massanella e colleghi sono partiti è stata che questi effetti si verifichino anche in vivo e contribuiscano alla persistenza del reservoir di HIV, alla compromissione della funzionalità del sistema immunitario e quindi a una più rapida progressione della malattia.
Hanno pertanto studiato un gruppo di 50 MSM con infezione da HIV cronica ben controllata dalla ART e li hanno caratterizzati in base al tipo di terapia, all’uso di metamfetamina e altri stimolanti, e allo stato dell’infezione per arrivare a isolare l’effetto della metamfetamina sull’attivazione immunitaria e determinare le relazioni fra uso di metamfetamina, livelli di attivazione immunitaria e di proliferazione di CD4 e CD8, livelli di espressione del CCR5 su linfociti T e macrofagi, dimensioni dei reservoir e capacità del virus latente di ricominciare a trascriversi. Poi hanno anche messo a confronto la capacità dei CD4 e dei CD8 prelevati da persone che usavano o non usavano metamfetamina di reagire contro diversi patogeni.
Quel che Massanella e colleghi hanno potuto osservare è che chi nel gruppo dei partecipanti allo studio aveva fatto uso di metamfetamina aveva livelli di proliferazione, attivazione ed esaustione dei CD4 e dei CD8 significativamente più alti di chi non ne aveva fatto uso e che questo era confermato anche nel sottogruppo di partecipanti che l'aveva assunta di recente.
I ricercatori avanzano due ipotesi, che non si escludono l’un l’altra, ma anzi possono potenziarsi a vicenda, sui meccanismi che possono aver determinato in vivo queste osservazioni: 1) un effetto diretto della metamfetamina sui linfociti T e 2) la ben nota immuno-attivazione che si associa alla presenza di citomegalovirus, dal momento che in chi usa metamfetamina hanno trovato livelli molto più alti di CMV nel tratto genitale.
Nonostante tutti i partecipanti allo studio fossero in terapia da molto tempo e tutti avessero la viremia del sangue soppressa, in quelli che usavano metamfetamina si è potuta misurare una tendenza ad avere livelli di DNA provirale più alti nei CD4 del sangue e di HIV RNA nello sperma. Quando però i valori sono stati corretti tendo conto della viremia del CMV queste differenze sono scomparse. Possono dunque essere altri gli elementi che determinano le dimensioni del reservoir. D’altra parte, l’aumento della proliferazione dei CD4 indotto dalla metamfetamina potrebbe certo aver contribuito all’aumento del reservoir, grazie alla proliferazione omeostatica delle cellule contenenti DNA virale.
Per concludere, Massanella e colleghi hanno prelevato CD4 e CD8 dai partecipanti a un’altra coorte e hanno visto che, nonostante le cellule di chi usava metamfetamina avessero tassi di proliferazione aumentata rispetto a quelle di chi non la usava, quando venivano messe a contatto con diversi patogeni (CMV, HIV, Candida, Mycobacterium Tuberculosis, Toxoplasma) le loro reazioni citolitiche erano pessime, comportando una diminuzione del controllo delle infezioni che può ben spiegare perché in chi usa metamfetamina si siano trovate viremie di CMV e HIV più alte che in chi non la usa.
Un altro meccanismo che potrebbe spiegare la maggior disfunzionalità del sistema immunitario di chi usa metamfetamina è infine il danno ossidativo che questa sostanza causa ai mitocondri: livelli di specie reattive dell’ossigeno aumentati possono danneggiare la capacità proliferativa dei linfociti T e così renderli poco abili nel contrasto ai patogeni.
Alla fine, quel che lo studio di Massanella ha mostrato è che metamfetamina, HIV e CMV interagiscono in modo complesso e questo può comportare una maggiore attivazione ed esaustione dei linfociti T anche in persone che mantengono una buona soppressione della viremia di HIV grazie a una buona aderenza alla terapia.
Adam Carrico, professore di salute pubblica e psicologia all’Università di Miami, è da tempo che si occupa di sviluppare interventi comportamentali per far fronte ai molti livelli di vulnerabilità delle persone con HIV, fra cui naturalmente rientra l’abuso di sostanze; e lo ha fatto ad esempio studiando la progressione dell’infezione e l’aumento del rischio di mortalità in persone che usano metamfetamina nel momento in cui iniziano la ART, quando la mortalità per cause AIDS- o non AIDS-correlate scende a livelli molto bassi e dimostrando che l’uso frequente di stimolanti aumenta sia il rischio di progressione, sia quello di mortalità soprattutto negli MSM che iniziano la ART con buoni livelli di CD4 e non in AIDS.
Nei due lavori pubblicati adesso ha studiato due cose nuove e a mio parere molto interessanti - sempre in persone con viremia di HIV ben controllata dalla ART: 1) l’associazione fra uso di metamfetamina e attivazione dei monociti e 2) l’espressione di geni connessi a tanti aspetti importanti nella progressione dell’infezione da HIV in chi usa stimolanti.
Nel primo dei lavori che vediamo oggi, l’obiettivo di Carrico e colleghi era simile a quello della ricerca di Massanella: spiegare i meccanismi biologici mediante i quali gli stimolanti possono promuovere la progressione della malattia in persone con viremia soppressa, indagando in particolare le alterazioni dei processi biologici – e cioè in sostanza immunoattivazione e infiammazione - rilevanti per la persistenza di HIV.
Qui i processi presi in considerazione sono stati la traslocazione microbica e l’attivazione dei monociti, due meccanismi di cui è ormai noto il ruolo nel promuovere morbilità e mortalità e che per molti aspetti sono connessi, non solo perché la traslocazione microbica dovuta al danneggiamento delle mucose intestinali da parte del virus e al passaggio di microbi al di fuori della barriera intestinale, potenzia l’attivazione immunitaria e l’infiammazione, ma anche perché l’LPS induce attivazione specificamente dei monociti, che di suo predice un peggioramento nella progressione dell’infezione.
Il marker tipicamente usato per valutare l’attivazione dei monociti è il CD14 solubile (sCD14) e riflette in parte l’attivazione indotta dall’LPS, cioè dalla traslocazione microbica.
Carrico e colleghi hanno dunque studiato 84 MSM con viremia soppressa e una mediana di 645 CD4, parte dei quali usavano stimolanti, parte no, per capire quanto il peggioramento del danno intestinale e della attivazione dei monociti indotto dagli stimolanti contribuisse ad aumentare il rischio di progressione nonostante l’efficacia della ART.
Mentre Massanella non aveva riscontrato aumenti significativi dell’sCD14 associati all’uso di metamfetamina, Carrico sì e la spiegazione che ne dà è che la ricerca di Massanella si era concentrata sul confronto fra chi non usava metamfetamina e chi aveva genericamente dichiarato di averla usata, mentre la sua ricerca ha proprio studiato le associazioni dose-risposta dell’uso recente di stimolanti e anche la severità della dipendenza. Quindi ne conclude che se si mettono insieme i risultati apparentemente discordanti dei due studi si può ipotizzare che gli effetti dell’uso di stimolanti sull’sCD14 si possano osservare solo in chi ha fatto uso recente o più frequente.
Il secondo lavoro pubblicato da Carrico e colleghi ha invece indagato l’espressione di diversi geni che si sanno associati a diversi meccanismi che favoriscono la patogenesi di HIV, la persistenza virale e la disregolazione immunitaria quando la ART sopprime la replicazione virale.
Qui si è visto che l’uso recente di stimolanti era associato a sovraregolazione di geni che codificano per marker espressi sui CD4 quando contengono virus in grado di replicarsi [qui il riferimento è al CD32a e al lavoro molto contestato – anzi francamente confutato – di Monsef Benkirane, quindi forse queste conclusioni sono da prendere con le pinze e tutto l’aspetto dell’influenza della metamfetamina sui geni che favoriscono il mantenimento del reservoir latente sarà da riconsiderare].
Ma si è visto anche che l’uso recente di metamfetamina causava sovraregolazione di geni che codificano per marker di esaustione dei CD4, tipo PD-L1.
Le conclusioni del lavoro concordano con tutto quel che abbiamo visto finora: l’uso di stimolanti può contribuire alla persistenza di HIV favorendo la latenza del virus e anche il mantenimento di bassi livelli di replicazione residua, inibendo l’apoptosi delle cellule infette e danneggiando le reazioni CTL, favorendo la disregolazione metabolica che porta all’espansione del reservoir nei CD4, e in generale portando all’alterazione dell’espressione di geni che si sanno rilevanti per l’immunoattivazione e l’infiammazione.
Tutto questo anche in persone con una buona aderenza alla ART e una buona soppressione della viremia nel sangue.
Fonti:
- - M. Massanella et al, Scientific Reports 2015, Methamphetamine Use in HIV-infected Individuals Affects T-cell Function and Viral Outcome during Suppressive Antiretroviral Therapy
- A. Carrico et al, JAIDS 2014, Stimulant Use and Progression to AIDS or Mortality After the Initiation of Highly Active Antiretroviral Therapy
- A. Carrico et al, Brain, Behavior, and Immunity 2018 - Recent stimulant use and leukocyte gene expression in methamphetamine users with treated HIV infection
- A. Carrico et al, AIDS 2018 - Substance-associated elevations in monocyte activation among methamphetamine users with treated HIV infection
- Comunicato stampa: Miller School Researcher Finds Link Between Crystal Methamphetamine and Immune Changes in HIV