Svegliami prima di andar via: lo "shock & kill" 2.1

Ricerca scientifica finalizzata all'eradicazione o al controllo dell'infezione.
Dora
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Svegliami prima di andar via: lo "shock & kill" 2.1

Messaggio da Dora » mercoledì 24 gennaio 2018, 11:34

https://www.youtube.com/watch?v=pIgZ7gMze7A



SVEGLIAMI PRIMA DI ANDAR VIA - LO "SHOCK AND KILL" 2.1: una strategia per risvegliare il reservoir latente prima che i CTL svaniscano

Quanto conta, per ottenere una reale diminuzione del reservoir latente di HIV, il momento in cui si somministrano gli interventi anti-latenza?
Possiamo ipotizzare che sia la stessa cosa intervenire prima della ART o in una qualsiasi delle fasi successive all'inizio della terapia antiretrovirale?
O possiamo invece ipotizzare che ci sia una "finestra di opportunità", durante la quale l'efficacia delle sostanze anti-latenza è massima per poi inesorabilmente declinare?
Possiamo cercare di sfruttare un preciso momento durante il quale altri meccanismi - questa volta di tipo immunologico - intervengano per favorire una massiccia distruzione delle cellule latentemente infette in cui il virus è stato riattivato?

Una "Opinion" pubblicata sull'ultimo numero di AIDS da Nicholas Chomont, Université de Montréal, e Lydie Trautmann, Walter Reed Army Institute, ci introduce a una variante dello "shock and kill" che possiamo chiamare 2.1, perché tiene conto del momento durante il quale si somministra l'intervento di "shock".

Preso atto dei modestissimi effetti di riduzione del reservoir misurati durante svariate sperimentazioni cliniche, Chomont cerca una via d'uscita e la trova in un'idea avanzata nel 2013 da Miles Davenport, Stephen Kent e colleghi della University of Melbourne in una review su The Lancet Infectious Diseases e sostanziata da un modello di intervento pubblicato l'anno successivo sul Journal of Virology: cercare di intervenire forzando la trascrizione del virus latente prima che le reazioni citolitiche dei CD8 perdano di efficacia, anzi, nel momento in cui sono massimamente efficaci.

Studiando il turnover del DNA virale nei CD4 quiescenti di macachi con infezione attiva da SIV, Davenport e colleghi hanno osservato che quando le viremie sono basse (sotto le 10.000 copie per mL di sangue) il reservoir virale è sostanzialmente stabile e le cellule latentemente infette ci mettono anni a morire, proprio come accade nelle persone in terapia. Invece, se le viremie sono alte (sopra il milione), il turnover delle cellule latentemente infette è molto rapido e quelle cellule muoiono nel giro di pochi giorni (o ore).
Una ragione di questo fenomeno potrebbe essere il fatto che un'alta viremia causa un'alta attivazione e quindi una più rapida morte dei CD4, compresi quelli latentemente infetti.
Questo ha permesso ai ricercatori di ipotizzare che gli alti livelli di attivazione immunitaria che si hanno durante l'infezione attiva permettano di contrastare l'instaurarsi della latenza.
Di qui l'ipotesi che sia possibile sfruttare questo meccanismo immunologico per svuotare il reservoir latente, colpendolo in un momento in cui è meno stabile e dunque più vulnerabile: durante l'infezione attiva, quando le cellule latentemente infette muoiono più in fretta.
Ma poiché la ART blocca tutti i cicli di replicazione che potrebbero essere innescati dal virus risvegliato dal reservoir, il modello proposto da Davenport prevede che il momento migliore per somministrare un breve ciclo di sostanze anti-latenza sia proprio in concomitanza con l'inizio della ART.

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Il modello arriva a fissare il tempo esatto della maggior efficacia dell'intervento anti-latenza perché ragiona su due possibili effetti ottenuti dalle sostanza anti-latenza nella loro interazione con i meccanismi immunologici dell'ospite: queste, infatti, benché non sia ancora chiaro esattamente come agiscano, possono avere un effetto additivo, se riattivano una porzione fissa del virus latente, indipendentemente dai livelli di attivazione del sistema immunitario; oppure possono avere un effetto moltiplicativo, se amplificano gli effetti dell'attivazione immunitaria di un fattore che dipende dal livello dell'attivazione.
In questo secondo caso, gli effetti moltiplicativi delle sostanze anti-latenza avrebbero l'impatto maggiore nel momento in cui l'attivazione è ai suoi massimi, cioè quando gli alti livelli della viremia tengono alta l'attivazione immunitaria.

In sostanza, il modello di Davenport ci dice: se gli attivatori della latenza agiscono indipendentemente dai meccanismi naturali di attivazione, cioè in senso additivo, il loro effetto è lo stesso in qualunque momento li somministriamo, che sia durante la ART o al suo inizio - e abbiamo visto che con i farmaci sperimentati l'effetto è stato assai modesto; se invece agiscono in senso moltiplicativo, allora il momento giusto per usarli è quando si comincia la ART, perché l'attivazione naturale è al suo massimo e quindi massima è anche la loro efficacia.

E quindi DARE SOSTANZE ANTI-LATENZA IN CONCOMITANZA CON L'INIZIO DELLA ART PUÒ ESSERE PIÙ EFFICACE, E NON DOVREBBE ESSERE MENO EFFICACE, CHE DARLE QUANDO SI È IN ART DA LUNGO TEMPO.

Il modello predice quindi che, se si somministrano sostanze anti-latenza all'inizio della ART, la diminuzione delle dimensioni del reservoir sarà maggiore che se le si somministrano dopo anni di terapia antiretrovirale. Pertanto, il modello sta o cade se si fa un semplice esperimento: basta confrontare la diminuzione dei livelli di HIV DNA pre-ART e dopo 6 mesi di terapia in presenza o in assenza di sostanze anti-latenza.

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Qui si inserisce Chomont, proponendo il razionale di una strategia in cui le sostanze anti-latenza siano somministrate nel momento in cui si comincia la ART e dunque quando massime sono le dimensioni del reservoir e prima che l'efficacia delle risposte citolitiche dei CD8 svanisca - una strategia che permetta di migliorare l'efficacia sia della componente di "shock", sia di quella di "kill" dello "shock and kill":

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Chomont ci ricorda che al momento non sappiamo se le cellule latentemente infette delle persone non in terapia reagiscano alle sostanze anti-latenza nello stesso modo delle cellule delle persone in ART da lungo tempo.
Sappiamo però che ci sono diversi fattori cellulari che contribuiscono a mantenere silenziata la trascrizione di HIV durante la ART ed è ragionevole pensare che questi fattori non siano altrettanto efficaci a mantenere il virus in latenza quando la viremia non è soppressa dalla ART, perché in quel caso l'attivazione globale dei linfociti T è molto alta, mentre si abbassa se grazie alla ART di virus in giro non ce n'è.
Quindi Chomont fa sua l'ipotesi che abbiamo visto sostenuta nei lavori di Davenport e colleghi: che l'ambiente infiammatorio caratteristico dell'infezione da HIV non trattata possa favorire l'inversione della latenza.

Ora, poiché sappiamo che i CD8 HIV-specifici delle persone da tempo in terapia non solo sono pochi (hanno livelli di almeno 10 volte inferiori di quelli che si misurano nelle infezioni non trattate), ma hanno anche perso molta della loro cattiveria, perché sono esauriti dalla cronica esposizione agli antigeni virali, bisognerebbe cercare il loro aiuto per distruggere le cellule infette in cui il virus sia stato riattivato prima che questo accada. Al momento di inizio della ART, appunto.

Chomont propone dunque di utilizzare i buoni modelli di primati non umani che abbiamo a disposizione, sperimentando su scimmie questa strategia di attacco contro la latenza virale al tempo di inizio della ART.
Se si vedrà che il potenziamento della risposta immune dato da alcune fra le sostanze anti-latenza disponibili non scatenerà casi di IRIS nelle scimmie, e se la diminuzione del reservoir degli animali trattati sarà più sensibile di quella degli animali che riceveranno solo la ART, il passaggio ai trial clinici potrà essere rapido.
In quel caso, la prima cosa da vedere sarà se le sostanze anti-latenza somministrate in concomitanza con l'inizio della ART permetteranno di ridurre il reservoir più di quanto si ottiene quando la sola ART viene cominciata durante la fase acuta dell'infezione.



Fonti:




*** Questo post è dedicato a Massimo, che seguiva il mio lavoro a volte senza capirne molto, ma sempre con affetto e con parole di incoraggiamento. E che in tanti anni di amicizia non si è mai dimenticato del mio compleanno. ***



Gabriel81
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Re: Svegliami prima di andar via: lo "shock & kill" 2.1

Messaggio da Gabriel81 » mercoledì 24 gennaio 2018, 23:33

Grazie come sempre, soprattutto dell’affetto e della dedizione verso tutti noi con quello che fai.

Ti abbraccio
Gabriel


Una pianificazione attenta non sostituirà mai una bella botta di culo!

Dora
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Re: Svegliami prima di andar via: lo "shock & kill" 2.1

Messaggio da Dora » giovedì 25 gennaio 2018, 13:09

Gabriel81 ha scritto:Ti abbraccio
Gabriel
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dolcemela87
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Re: Svegliami prima di andar via: lo "shock & kill" 2.1

Messaggio da dolcemela87 » giovedì 25 gennaio 2018, 13:30

Grazie Dora! praticamente le cose che so sulle strategie terapeutiche in studio le so tutte grazie a te !



Dora
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Re: Svegliami prima di andar via: lo "shock & kill" 2.1

Messaggio da Dora » domenica 27 ottobre 2019, 9:16

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Intervenire all'inizio della cART per diminuire le dimensioni del reservoir latente

I lavori di cui parlerò oggi non sono direttamente collegati al modello di Chomont sui tempi migliori di un intervento sui CD8, ma poiché anche qui l'idea è quella di sfruttare il timing di formazione del reservoir latente, colpendolo prima che sia diventato stabile, ho pensato di dare seguito a questo thread dell'anno scorso.

A settembre, è uscito su Science Translational Medicine un lavoro della University of North Carolina at Chapel Hill in collaborazione con ricercatori sudafricani della University of KwaZulu- Natal e della University of Cape Town, i cui risultati erano già stati anticipati ad AIDS 2018.

Ronald Swanstrom, Sarah Joseph e colleghi si erano posti un obiettivo molto importante: volevano capire alcuni dettagli mancanti del quadro relativo alla formazione del reservoir, in particolare in che momento del virus capace di dare origine a nuovi cicli di replicazione entri nel reservoir più stabile e duraturo, quello composto da cellule che possono rimanere quiescenti per molti anni.

Da che cosa partivano? Ovviamente partivano dall'enorme mole di conoscenze sulla formazione e composizione del reservoir che sono state accumulate negli ultimi due decenni:

  • 1) sapevano che le cellule in cui risiede la parte preponderante del reservoir sono linfociti T CD4, ma che anche altre cellule possono contenere virus latente;
    2) sapevano che il reservoir si forma sostanzialmente in due modi: o perché una cellula attivata infetta transiziona verso uno stato di quiescenza e il virus in essa contenuto si blocca dentro il suo genoma, o perché una cellula quiescente latentemente infetta si espande per via clonale, trasferendo nei cloni il suo carico di virus addormentato;
    3) sapevano che nelle persone in terapia antiretrovirale una parte grandemente maggioritaria del reservoir è composta da virus difettivi, che possono causare problemi di infiammazione, di attivazione immunitaria, di esaurimento del sistema immunitario, ma non sono in grado di riattivarsi e di reinnescare cicli di infezione nel momento in cui viene sospesa la cART;
    4) sapevano che è molto difficile stimare le dimensioni del reservoir sia perché i CD4 quiescenti che contengono virus latente sono circa 1 su 1 milione e dunque riuscire a trovarli è un'improba impresa, sia perché con il metodo normalmente usato - il QVOA (quantitative viral growth assay) - si mettono dei CD4 latentemente infetti in coltura con sostanze che li forzino a produrre virus, ma si è visto che di questi virus in grado di replicarsi ne restano sempre a dormire un bel po', pronti a risvegliarsi in momenti successivi. Quindi il QVOA sottostima le dimensioni del reservoir capace di replicazione;
    5) sapevano che il reservoir si forma subito, anche in persone che cominciano la cART a pochissimi giorni dal momento dell'infezione e che quindi è molto probabile che in tutto il periodo che precede l'inizio della cART ci sia una continua formazione del reservoir;
    6) sapevano che c'erano due lavori di due gruppi di ricerca diversi che avevano dato risultati discordanti: per uno c'erano prove di una continua introduzione di DNA virale nel reservoir stabile, quello in cellule che vivono a lungo; mentre l'altro aveva trovato che la maggior parte del DNA virale presente nel reservoir viene da virus che si stava replicando proprio nel periodo di inizio della cART.


Swanstrom, Joseph e colleghi si sono inseriti nel campo delle ricerche sui tempi della formazione del reservoir in base all'ipotesi che una comprensione dei momenti in cui questo serbatoio di cellule latentemente infette si forma possa darci delle idee su come limitare le dimensioni di quella parte di reservoir costituita da virus capace di replicazione localizzato in cellule che vivono molti anni.
Per farlo, si sono rivolti alla coorte 002 di CAPRISA (Centre for the AIDS Programme of Research in South Africa), in KwaZulu-Natal, composta da donne che sono state arruolate durante l'infezione primaria, ma non hanno iniziato la terapia finché non hanno raggiunto le soglie di CD4 che erano previste dalle Linee Guida locali (che sono cambiate durante lo studio, passando da <200 a <350).
Hanno usato il QVOA su campioni di sangue che sono stati prelevati a 9 donne in molti diversi momenti - a partire dal loro arruolamento nella coorte 002 fino a parecchi anni dopo l'inizio della cART. Hanno sequenziato i virus dei reservoir prodotti dal QVOA e li hanno confrontati con i virus presenti nei campioni prima dell'inizio della cART. Il confronto fra le sequenze di virus presenti prima della cART e quelli prodotti dal reservoir ha dimostrato che nella maggior parte dei casi i virus che erano entrati a comporre il reservoir ci erano entrati nei tempi immediatamente precedenti l'inizio della terapia antiretrovirale, nell'anno o nei mesi precedenti.
In 4 delle 9 donne più del 90% del virus identificato dal QVOA era entrato nel reservoir nell'anno precedente la cART, mentre il valore mediano di tutte e 9 le donne insieme è stato 78%.
Questo conferma e rafforza il lavoro di Brodin e colleghi del 2016, in cui si era visto che circa il 60% delle sequenze di DNA di HIV presenti nel reservoir dopo l'inizio della cART erano connesse a varianti virali presenti subito prima dell'inizio della terapia. Ed è una conferma importante, perché se un gruppo ha lavorato su donne sudafricane infettate con HIV di ceppo C, l'altro ha lavorato in grandissima maggioranza su uomini svedesi con HIV di ceppo B, quindi si può pensare che i risultati ottenuti siano generalizzabili.

Che cosa ci dice tutto questo? Ci dice che molto probabilmente, quando l'infezione da HIV non è trattata, le cellule che si infettano sono cellule attivate e che hanno una vita piuttosto breve (giorni o al più qualche mese). Questo impedisce che si formi un ampio serbatoio di cellule latentemente infette che vivano anni, semplicemente perché quei CD4 muoiono prima di subire quei profondi cambiamenti immunologici che li trasformano in CD4 memoria quiescenti dalla lunghissima emivita che costituiscono il reservoir più stabile. Si può quindi formare un reservoir di virus latente, ma le cellule che lo supportano non hanno le caratteristiche immunologiche per costituire un reservoir duraturo.

Che cosa fa la cART? In che senso il suo intervento modifica il panorama immunologico del reservoir? Bloccando la replicazione di HIV, fa in modo che i livelli di antigeni virali presenti nel corpo calino drasticamente, quindi la formazione di linfociti T memoria che era limitata dalla presenza di alti livelli di antigeni non trova più blocchi e così si forma quell'ampio serbatoio di CD4 memoria dalla durata più lunga che dà vita al reservoir stabile di HIV latente.

Che fare di queste preziose informazioni? È possibile sfruttarle in senso terapeutico?
L'idea di Sarah Joseph e colleghi è dettagliata nel secondo articolo di cui parliamo oggi, in cui i ricercatori della University of North Carolina at Chapel Hill propongono di bloccare con un anticorpo, per un periodo definito che va dall'inizio della cART al raggiungimento della soppressione della viremia, l'interazione fra l'interleuchina 7 e il suo recettore cellulare (IL-7/IL-7R), perché in questo modo si può impedire la generazione di quei CD4 memoria latentemente infetti che hanno durata maggiore e che, come abbiamo visto, costituiscono la porzione stabile del reservoir.

Nell'articolo viene spiegato con molti particolari il meccanismo immunologico alla base del razionale di questa strategia. Nella sostanza, l'idea è che, quando l'infezione non è trattata, i CD4 memoria che esprimono il CD127 (che è il nome del recettore cellulare per l'IL-7) vengono distrutti molto rapidamente, perché il virus interferisce nell'interazione fra IL-7 e IL-7R disturbando la formazione dei CD4 memoria.
Questa però riprende rapidamente nel momento in cui la cART spazza via il virus bloccandone la replicazione incontrollata e quindi l'interazione fra la citochina e il suo recettore riprende a funzionare regolarmente.
Ma se con un anticorpo specificamente costruito blocchiamo l'interazione fra IL-7 e IL-7R limitiamo la generazione di CD4 memoria.

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È chiaro che non possiamo farlo per un tempo indefinito, perché questi CD4 memoria sono una componente imprescindibile delle nostre difese immunitarie. Ma possiamo farlo per il tempo necessario a limitare la transizione dei CD4 infetti verso quello stato di CD4 memoria di vita lunghissima che abbiamo visto costituire il grosso del reservoir.
Se si interviene proprio in contemporanea con l'inizio della cART, questo potrebbe certo non impedire la formazione di un reservoir latente, ma diminuirne in modo molto consistente le dimensioni. Così che poi, quando si interverrà con qualche strategia di riattivazione del reservoir, di cellule da riattivare e poi distruggere ce ne siano tante di meno.

Anche se non priva di rischi, questa strategia è molto interessante e promettente e il suo razionale trova conferma nel disastro combinato sul reservoir in quei trial clinici fatti qualche anno fa in cui si aumentava la quantità di IL-7 con l'idea di far aumentare i livelli dei CD4: sì, i CD4 aumentavano (transitoriamente) negli immunologic non responders, peccato che aumentassero anche le dimensioni dei reservoir.
Tentare dunque, sia pure per un tempo limitato, una strategia contraria ha senso.

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Di anticorpi che colpiscano l'interazione fra IL-7 e IL-7R ce ne sono alcuni in sperimentazione clinica per sopprimere le reazioni anomale dei CD4 memoria che si presentano in diverse malattie autoimmuni e patologie infiammatorie (dal diabete alla sclerosi multipla, all'artrite reumatoide, alla malattia infiammatoria intestinale) e, anche se le sperimentazioni non sono concluse, sembra che siano ben tollerati ed efficaci.
Vedremo quindi se il blocco dell'interazione fra IL-7 e suo recettore cellulare in contemporanea con l'inizio della cART per ritardare la formazione dei CD4 memoria fino a quando il virus sarà completamente soppresso verrà presto testato come nuova strategia che, limitando la formazione di un reservoir stabile ampio, faciliti i futuri tentativi di arrivare a una sua completa o parziale distruzione. E quindi a una cura dell'infezione.

Magari in combinazione con qualche strategia antiproliferativa - suggeriscono opportunamente i ricercatori nelle conclusioni dell'articolo. E qui vi rimando ai lavori di Andrea Savarino su auranofin e BSO e a quelli di Joshua Schiffer sul micofenolato mofetile.




Fonti:



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