UNA TISANA DI KANSUI PER ERADICARE L’HIV? A SAN FRANCISCO UN TRIAL CLINICO PILOTA DIRETTO DA STEVEN DEEKS SOLLEVA INQUIETANTI DOMANDE
Dalla prostratina ai derivati ingenol, lo sterminato mondo delle euphorbiacee ci regala diverse sostanze che – quanto meno in vitro – promettono di riattivare l’HIV latente.
Fra gli ingenoli, l’ingenol-B e l’ingenolo mebutato sono stati studiati sia in diversi modelli cellulari di latenza, sia in cellule prelevate ex vivo a persone con HIV in terapia, sia – l’ingenol B – in modelli animali, per indagare la loro capacità di riattivare la trascrizione dell’HIV latente. Si è visto che funzionano piuttosto bene e soprattutto si è visto di recente che possono lavorare in sinergia con altre sostanze, così amplificando il loro effetto anti-latenza e candidandosi ad essere studiati nell’uomo come possibili sostanze per lo shock and kill 2.0 – la strategia di eradicazione che abbiamo chiamato cALT (terapia anti-latenza combinata).
Fa parte della famiglia degli ingenol anche l’Ingenol 3,5,20-triacetato (ITA), estratto dalle radici dell’Euphorbia Kansui.
Un gruppo di studiosi giapponesi, nella seconda metà degli anni ’90, dimostrò che l’ingenolo triacetato aveva in vitro un effetto inibitorio della replicazione di HIV in cellule con infezione acuta abbastanza potente anche se meno forte di quello dell’AZT, e un più interessante effetto di stimolo alla replicazione virale in cellule cronicamente infette, a concentrazioni bassissime (nanomolari).
Gli scienziati giapponesi scoprirono anche che il meccanismo grazie al quale l’ingenolo triacetato stimola la riattivazione dell’HIV latente è l’attivazione del fattore nucleare kB (NF-kB), che è un induttore della replicazione di HIV attraverso il meccanismo della protein-chinasi C (PKC).
Pareva che l’ingenolo triacetato si fosse inabissato fra le tante sostanze prese in considerazione negli anni ’90 del secolo scorso per contrastare l’HIV e poi dimenticate, perché non si sapeva bene come utilizzarle. Ma fra il 2014 e il 2015, sulla scia dell’interesse per l’ingenol B, i vecchi articoli giapponesi sono stati riesumati e citati in un paio di review dedicate ad agonisti della PKC da impiegarsi come possibili sostanze anti-latenza.
Questo derivato ingenol potrebbe dunque godere di nuova popolarità se qualcuno si impegnasse a studiarlo come si deve, proseguendo la ricerca iniziata in Giappone e mai approfondita.
Servirebbero studi sui modelli cellulari di latenza, studi ex vivo su cellule di persone con HIV e in ART soppressiva, studi su scimmie … insomma, la normale trafila che porta una sostanza ad essere infine sperimentata sull’uomo.
Invece no. Invece accade che alla University California San Francisco Sulggy Lee, una infettivologa di secondo piano che collabora con Mike McCune e Steven Deeks, abbia una certa propensione per la medicina tradizionale cinese, o forse si ricordi che sua nonna usava la radice di Kansui in polvere per fare tisane che curavano ogni dolore avesse a che fare con i meridiani di milza, polmoni, reni, vescica e intestino, in particolare se qualcuno aveva da purgare eccessi di fluidi o da rilassare le viscere. Purché non ci fossero gravidanze in corso, deficienze di Qi o – Dio non voglia! – un indebolimento dello Yin, però, perché in quel caso la tisana di kansui era assolutamente sconsigliata.
Capitava che, data la notevole tossicità della polvere di kansui, chi beveva le tisane della nonna presentasse strani sintomi da avvelenamento – mal di pancia e diarrea, con corredo di nausea, vomito, palpitazioni e crolli di pressione, se andava bene; epatiti fulminanti, se di tisana ne aveva bevuta troppa o era stato così scemo da prenderla insieme alla liquirizia.
Ma siamo moderni, no? Siamo scienziati che sanno quello che fanno e hanno dei preliminary in vitro data che parrebbero dimostrare che kansui extract powder is a potent activator of HIV transpcription in latently infected Jurkat cells.
E così la nostra Sulggy Lee riesce a farsi approvare dal comitato etico del San Francisco General Hospital, finanziare dal Center for AIDS Research (CFAR) presso cui insegna, e sponsorizzare dalla sua blasonatissima università una sperimentazione clinica per indagare non – come precorrendo un po’ i tempi potremmo pensare – gli effetti dell’ingenolo triacetato sul reservoir latente di persone con HIV e viremia soppressa dalla ART, ma invece un delirante studio sulla “risposta immunologica al kansui in persone HIV+ in terapia”: Immunologic Response to Kansui in Treated HIV+ Individuals: a Dose Escalation Study.
E non assume da sola la direzione del trial, no. La affianca nulla di meno che Steven Deeks.
Questo studio clinico di fase I, regolarmente iscritto in ClinicalTrial.gov lo scorso 20 agosto, è di tipo interventistico, non randomizzato, in aperto e su un singolo gruppo di presumibilmente 9 persone.
I volontari berranno per 1, 2 o 3 giorni consecutivi una tisana fatta con 1 grammo di polvere di Euforbia Kansui sciolta in poco più di 1 decilitro di acqua bollente fatta poi raffreddare.
E la brava Sulggy Lee (immagino sotto l’attenta supervisione di Steven Deeks) valuterà in primo luogo la sicurezza della tisana, contando gli effetti avversi che abbiano come grado di severità almeno 2 e le eventuali corrispondenti anomalie di laboratorio (insomma, se le transaminasi schizzano alle stelle e serve con urgenza un trapianto di fegato).
In secondo luogo – e qui arriviamo allo stadio parossistico del delirio – misurerà i cambiamenti nei livelli di attivazione immunitaria (percentuale di CD4 e CD8 che portano i marker CD69 e HLA-DR) nei 31 giorni successivi alla degustazione del tè.
Non contenta, cercherà anche di misurare i cambiamenti del reservoir, valutando i livelli di HIV RNA associato alle cellule e quello libero nel sangue nei 31 giorni di durata del protocollo.
La speranza dei ricercatori è che, una volta stabilite in vivo la sicurezza e l’attività biologica della tisana di kansui, si possa procedere a uno studio più ampio, che permetta di indagarne l’efficacia nel trattamento dell’infezione da HIV.
In una pagina del sito della UCSF in cui si narrano le success stories che hanno allietato l’università nella primavera del 2015, Sulggy Lee è ancora più ardita, perché si spinge a dichiarare che
- I risultati di questo studio forniranno i dati preliminari per proseguire potenzialmente con futuri studi interventistici e farmacocinetici/farmacodinamici sul kansui per l’eradicazione di HIV.
Ora io ho tre semplici domande e una sommessa proposta.
Domande:
- 1. I costituenti chimici della polvere estratta dalla radice dell’Euphorbia kansui sono innumerevoli. Se anche Sulggy Lee rilevasse un perturbamento del reservoir che potesse far pensare a una azione della tisana sull’HIV latente, come potrebbe attribuire questa azione a una sostanza specifica? E se invece la tisana si rivelasse tossica e facesse alzare troppo – come ci si può attendere – i marker di attivazione, come farebbe Sulggy Lee a dire che la colpa è di uno dei derivati ingenol presenti e quindi che questo è troppo tossico per essere somministrato in vivo? Comunque la si veda, questa sperimentazione rischia o di creare confusione attorno all’ingenolo triacetato, o di segargli le gambe nella sua corsa come sostanza anti-latenza.
2. Perché la UCSF finanzia e sponsorizza un trial clinico che, fin dal modo in cui è impostato, può essere considerato spazzatura e che non potrà dare alcuna indicazione utile nella ricerca di una cura dell’infezione da HIV? Quanto della marea montante delle CAM (complementary and alternative medicine) è riuscito a insinuarsi nella ricerca su HIV? Quanto sCAM è ammesso nei laboratori da cui ci attendiamo che arrivi una cura?
3. Perché Steven Deeks ha prestato la sua faccia e il suo prestigio a questa buffonata?
Proposta: per generazioni e generazioni, le mie nonne hanno curato quasi tutto con il brodo di pollo. Ora lo si trova anche in commercio già pronto: organico, senza grassi e con ridotto contenuto di sodio. Vogliamo vedere se funziona anche contro la latenza di HIV?