Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)?

Ricerca scientifica finalizzata all'eradicazione o al controllo dell'infezione.
Dora
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Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)?

Messaggio da Dora » sabato 4 aprile 2015, 15:18

L'IPOTESI DI UNA cALT (Terapia Anti-Latenza combinata) PRENDE SEMPRE PIÙ FORMA.

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Riprendo un post del 24 marzo dell'anno scorso per seguire in un nuovo thread un filone delle ricerche di Robert Siliciano che in questi giorni vede la pubblicazione di una nuova appassionantissima puntata: si tratta del tentativo di dar conto di quello sfasamento osservato fra l’effetto delle sostanze anti-latenza nei modelli cellulari in vitro e nei CD4 quiescenti prelevati ex vivo a persone con HIV in terapia soppressiva e la conseguente ipotesi che questi farmaci possano funzionare meglio se usati in combinazione.
Le immagini possono essere viste nel post originale, mentre la traduzione di un articolo della giornalista scientifica Alla Katsnelson sulla necessità di ripensare le strategie anti-latenza, scritto nel giugno scorso su Nature Reviews - Drug Discovery, segue subito sotto.


Dora ha scritto:
  • Perché le sostanze anti-latenza hanno finora dato così cattiva prova di sé nelle sperimentazioni cliniche?
In questi anni abbiamo visto fallire tutti i trial clinici “proof of concept” fatti per sperimentare qualche farmaco anti-latenza: lasciando perdere il debolissimo acido valproico, hanno fatto o stanno facendo una brutta fine il disulfiram, il vorinostat e il panobinostat – uno apparentemente più potente dell’altro. E anche le prospettive della romidepsina non si può dire che siano rosee, mentre di briostatina e prostratina in fase clinica dubito che sentiremo parlare in tempi ragionevoli.

Da profana, mi sono chiesta: perché tutte queste sostanze, che in vitro sembrano funzionare bene o addirittura benissimo e delle quali si sono misurate le diverse capacità di riattivare il virus latente (senza al tempo stesso attivare in massa tutti i CD4) in modo così preciso da poterle mettere in scala di potenza, quando finalmente vengono sperimentate in vivo, sembra che al virus che dorme non riescano a fare neppure il solletico?
Che cosa non funziona nei diversi modelli cellulari perché si rivelino così poco affidabili nel predire che cosa accadrà davvero nel corpo dei pazienti?
E in particolare: perché nei modelli riesci a stabilire che una sostanza è più potente di un’altra nel forzare la trascrizione del virus, e anche di quanto è più potente, e invece i risultati delle sperimentazioni cliniche sono molto simili (e vicini allo zero) per le diverse sostanze?
In questi anni, mi è capitato di leggere decine di lavori in cui si lamentava il fatto che nessun modello cellulare della latenza riesce da solo a catturare l’estrema complessità della realtà. Parallelamente, in ogni articolo, in ogni presentazione a un congresso, c’è sempre qualche ricercatore che sottolinea quanto sia difficile misurare correttamente il reservoir - una valutazione da cui non si può prescindere se si vuole capire se i farmaci antilatenza stanno avendo qualche effetto oppure no.
E già l’anno scorso, nell’ultima ricerca di cui abbiamo parlato in questo thread, dal laboratorio di Siliciano era venuta la dimostrazione che quello che è considerato il gold standard per misurare le dimensioni del reservoir latente – il Quantitative Viral Outgrowth Assay (QVOA) – non riesce a individuare la presenza di genomi provirali dopo che questi sono stati riattivati in vitro, mentre la PCR riesce ad amplificare un certo numero di “provirus non indotti” - tanto che Margolis - non ricordo più in quale occasione recente - ammise che, finché non si trova un modo per valutare davvero le dimensioni del reservoir, ogni trial clinico rischia di essere una semplice presa in giro.

Prima di arrivare alla sperimentazione in vivo, mancava inoltre un approfondito passaggio dai modelli in vitro alle cellule prelevate ex vivo da pazienti con viremia soppressa dalla terapia.
Questo passaggio l’ha fatto adesso Siliciano e qualche risposta comincia ad arrivare.
La ricerca è stata presentata al CROI tre settimane fa, ma ieri è uscito il relativo articolo su Nature Medicine, quindi metterò insieme qualche diapositiva della presentazione di Gregory Laird con quel che io ho recepito dell’articolo molto tecnico di Siliciano.

Detto molto brutalmente: nessuno dei farmaci antilatenza (latency-reversing agents – LRAs) sperimentati finora ha dimostrato di saper ridurre le dimensioni del reservoir latente in persone con HIV.
Il trattamento ex vivo con vorinostat di cellule di persone infette ha indotto, in certi studi, uno certo riattivarsi del virus, mentre in altri studi non si è visto neppure quello. Ma in vivo di produzione virale non se ne è vista.
Mancava finora una strategia validata ex vivo di confronto fra le diverse sostanze antilatenza, ed è quello che ha fatto Siliciano in questa ricerca, cercando di indurre la trascrizione virale in circa 5 milioni di CD4 quiescenti con vari LRAs e utilizzando tre test differenti per misurarne gli effetti. I test sono stati:
  • 1. l’induzione di produzione virale – a indicazione di un’avvenuta inversione della latenza (Viral Outgrowth Assay – un tipo di test creato e ora modificato nel laboratorio di Siliciano);
    2. il rilascio di virus libero fuori dalle cellule;
    3. la produzione di HIV-1 mRNA intracellulare. È il metodo più comune per misurare mediante PCR l’induzione della trascrizione dell’HIV e consiste nella misura degli RNA che contengono sequenze della proteina Gag dell’HIV. Il problema - come viene dimostrato nell'articolo - è che anche se sono stati documentati aumenti di HIV-1 mRNA nei trial sul vorinostat di Margolis e di Lewin, questo metodo di misurazione non è del tutto affidabile, perché l'HIV mRNA può essere generato come risultato della trascrizione di geni umani entro i quali il virus si è integrato. Ma questo fenomeno non è la stessa cosa dell'attivazione del virus e non porta alla replicazione dell'HIV e alla produzione di virioni, che è la ragione per cui si usano i farmaci antilatenza.


Nei modelli cellulari, vorinostat, romidepsina, panobinostat, disulfiram e briostatina-1, dati in concentrazioni clinicamente accettabili, avevano dimostrato di poter invertire efficacemente la latenza senza avere effetti tossici sui CD4 quiescenti.
Le slides seguenti mostrano invece come da tutti e tre i tipi di test si sia visto che le singole sostanze anti-latenza non hanno causato produzione di virus nelle cellule prelevate dai pazienti con viremia soppressa dalla ART. Invece, trattando le cellule in coltura con PMA (forbolo miristato acetato) + ionomicina, un mix che causa attivazione cellulare e non può dunque essere usato nella clinica, tutte le cellule di tutti di pazienti hanno prodotto virus, che è stato possibile quantificare con un Viral Outgrowth Assay standard.


Le conclusioni dell’articolo:
  • I nostri dati dimostrano che nessuno dei principali candidati testati, fra le sostanze che invertono la latenza senza riattivare i linfociti T, è riuscito a distruggere in modo significativo ex vivo il reservoir latente. Il contrasto fra gli effetti dei LRAs nei modelli di latenza dell’HIV-1 in vitro e i loro effetti ex vivo nei CD4 quiescenti di persone infette in ART indica che questi modelli non catturano completamente tutti i meccanismi che governano la latenza dell’HIV-1 in vivo. È improbabile che queste sostanze portino all’eliminazione del reservoir latente in vivo quando somministrate individualmente.
    L’unica sostanza efficace quando usata da sola è l’agonista della PKC [protein-chinasi C] briostatina-1, che probabilmente è troppo tossica per essere usata nella clinica.
    Rimane da capire se altri agonisti della PKC o altre sostanze che stimolano meccanismi associati all’attivazione dei linfociti T possano essere abbastanza sicuri da essere somministrati ai pazienti ed è possibile che ulteriori progressi dipendano dal trovare delle combinazioni di LRAs che siano sicure e attive.
Con questo l’articolo si chiude.
Invece, la lezione tenuta al CROI da Gregory Laird ci lascia con qualche speranza in più, perché ci mostra come alcune combinazioni di sostanze anti-latenza abbiano dimostrato di poter lavorare insieme, inducendo una maggior produzione di virus nelle cellule latentemente infette prelevate dai pazienti. Si è infatti osservato un potente ed efficace effetto sinergico quando sono stati uniti il panobinostat e soprattutto la romidepsina alla briostatina.

DdD: si sta preparando una terapia combinata anti-latenza, una specie di cALT?




FONTI:

Dora ha scritto:Quando lo scorso marzo dal Siliciano Lab è arrivata la conferma di quanto si era osservato durante i trial clinici, e cioè che c’era uno sfasamento nell’effetto che le sostanze anti-latenza hanno nei modelli cellulari in vitro e quello che hanno ex vivo nei CD4 quiescenti di persone infette in terapia soppressiva, una nuova speranza veniva parallelamente offerta dalla possibilità di un uso congiunto di farmaci anti-latenza diversi.
Fu facile, allora, prevedere che stesse prendendo forma il concetto di terapia combinata anti-latenza e immaginare che potesse nascere l’acronimo cALT = combined Anti-Latency Therapy/Treatment.

Su Nature Reviews - Drug Discovery, la giornalista scientifica Alla Katsnelson ha pubblicato pochi giorni fa un breve articolo – Setback prompts rethink of latency-reversing strategy to eliminate HIV infection - che fa il punto della situazione sulle sperimentazioni fatte finora sui farmaci anti-latenza. È un lavoro semplice e molto chiaro, che mi sembra valga la pena tradurre per avere una visione di sintesi su alcune delle ricerche che stiamo seguendo in questa sezione del forum – e anche perché conferma che l’idea della cALT sta davvero prendendo consistenza.



Una battuta d’arresto spinge a ripensare alla strategia di inversione della latenza per eliminare l’infezione da HIV

I risultati contrastanti della prima generazione di sostanze che colpiscono l’infezione latente da HIV portano gli esperti a considerare combinazioni terapeutiche e nuovi test

I farmaci antiretrovirali sono stati efficaci in modo spettacolare nel controllare l’HIV ostacolando la capacità del virus di infettare le cellule, ma non distruggono i reservoir di cellule latentemente infette, che rimangono il principale ostacolo alla cura.
Una soluzione attraente a questo problema è stata quella delle sostanze che invertono la latenza (Latency Reversing Agents – LRAs), capaci di riattivare il virus dormiente, stanandolo dal suo nascondiglio in modo che possa essere colpito e ucciso.

Tuttavia, la prima generazione di LRA è di recente incappata in qualche difficoltà.

Uno studio ha dimostrato che quattro delle sostanze considerate migliori, che avevano mostrato delle potenzialità nei modelli di colture cellulari e negli studi clinici preliminari, hanno efficacia minima sulle cellule prelevate dai pazienti (Nature Med. 20, 425–429; 2014). Una quinta sostanza, per quanto più potente, è probabilmente troppo tossica per poter essere utilizzata in clinica.

Per molti che lavorano in questo campo, questi e altri dati indicano la necessità di un approccio “shock and kill” combinato, così come dello sviluppo di farmaci migliori. Ma i dati clinici potrebbero ancora salvare l’approccio con una singola sostanza. “Non sono del tutto convinto che questi test ex vivo colgano in pieno l’effetto dei farmaci in vivo” – dice Thomas Rasmussen, dell’università danese di Aarhus. “C’è un altro tipo di test che ci sta portando a una conclusione che non è necessariamente la medesima cui stanno arrivando altri laboratori”.

Il primo attacco in vivo all’approccio dei LRA venne una decina d’annoi fa, quando David Margolis, ora alla University of North Carolina, e colleghi trattarono quattro pazienti con acido valproico, un inibitore dell’iston-deacetilasi (Lancet 366, 549–555; 2005). Questi risultati – interessanti, ma preliminari – non furono confermati in sperimentazioni successive, ma diedero impulso a un impegno più ampio verso l’identificazione di nuovi LRA.
Per esempio, nel 2012 Margolis e colleghi pubblicarono uno studio molto stimolante, in cui si mostrava che il vorinostat, un altro inibitore dell’iston-deacetilasi, aumentava l’espressione dell’HIV RNA nei CD4 quiescenti in otto pazienti (Nature 487, 482–485; 2012).
Tuttavia, nonostante dati incoraggianti su diversi HDACi e altre piccole molecole nei modelli in vitro – compresa una positiva attività della romidepsina su cellule tratte da pazienti riferita lo scorso aprile (PLOS Pathog., 10 Apr 2014) – i dati clinici che ne sono seguiti sono stati contrastanti.

In una ricerca recente, Robert Siliciano e colleghi della Johns Hopkins University School of Medicine, Maryland, si erano prefissi di studiare gli effetti del disulfiram su 16 persone con HIV. il disulfiram, che è usato per trattare l’alcolismo, aveva mostrato una certa attività in un modello cellulare, ma non ha avuto alcuna efficacia nel trial clinico pilota (Clin. Infect. Dis. 58, 883–890; 2014). “Questo è proprio quello che ci ha spinto a dire ‘OK, dobbiamo tornare indietro e vedere se questi modelli ci dicono davvero quello che accade nelle cellule dei pazienti” – dice Siliciano.

Nei test basati su cellule tratte dai pazienti che hanno sviluppato, come riferito nel recente articolo su Nature Medicine, né i tre HDACi che hanno testato – vorinostat, panobinostat e romidepsina – né altre due sostanze – il disulfiram e la briostatina-1 – hanno indotto produzione virale, il gold-standard per misurare la riduzione della latenza.
Tutti, tranne la briostatina-1, hanno indotto solo un piccolo aumento dei livelli di HIV mRNA nelle cellule tratte da 13 persone con HIV. “Se l’attivazione dei linfociti T causa un aumento di 100 volte nell’HIV mRNA, queste sostanze possono causare un aumento di 2 volte” – dice Siliciano.
La briostatina-1 ha prodotto un aumento da 3 a 5 volte nei livelli di mRNA, ma ha anche causato una significativa tossicità alle cellule. “Non è chiaro se questo farmaco sarà mai abbastanza sicuro da usare in questo contesto” – nota Siliciano.
Jerome Zach, direttore del Center for AIDS Research della University of California, Los Angeles, sta invece sviluppando degli analoghi di sintesi della briostatina-1 – chiamati “briologhi” – con l’obiettivo di minimizzarne la tossicità.


Combinazione di LRAs

“È possibile che questi farmaci funzionino se usati in qualche combinazione” – dice Siliciano. “È solo che, fino ad ora, presi singolarmente non sono stati particolarmente efficaci”. E questo non dovrebbe sorprendere – aggiunge: la terapia combinata è stata storicamente la strada da percorrere con l’HIV. Il suo gruppo ha già iniziato a testare combinazioni di sostanze nei modelli costruiti con cellule prese dallo stesso paziente, anche se è un processo molto macchinoso – dice.
La Merck sta utilizzando screening detti “ad alto rendimento” per identificare combinazioni di LRA – dice Daria Hazuda, capo delle ricerche per le malattie infettive ai Laboratori di ricerca Merck. L’espressione del virus latente è modulata dalla cromatina, e ciò la rende suscettibile di essere colpita dagli HDACi, ma viene anche ristretta attraverso altri meccanismi al livello della trascrizione e forse anche della traduzione, quindi colpire una combinazione di meccanismi potrebbe produrre i risultati migliori. “Stiamo iniziando a raccogliere alcune idee interessanti su come ottimizzare delle combinazioni in modo più sistematico e razionale” – dice.
Anche una manciata di altre società, compresa Gilead Sciences, stanno lavorando in questo campo – aggiunge.

Studi su scimmie infettate dal virus dell’immunodeficienza scimmiesca (SIV) e su topi umanizzati saranno cruciali per capire come i LRA lavorino in vivo – dice Margolis. Ci sono in corso degli studi su una combinazione di vorinostat e prostratina, così come su altri HDAC, agonisti della protein-chinasi C (PKC), inibitori del bromodomain e altri composti come l’ingenol, testati da soli o in combinazione. “Degli studi di combinazione su esseri umani, a mio parere, non sono ancora sicuri” – aggiunge.

Invece, Rasmussen continua a sperare in sostanze singole. Al CROI lo scorso marzo ha riferito che il panobinostat – uno dei farmaci che hanno mostrato una attività minima nel recente studio di Siliciano – ha indotto un aumento nei livelli di HIV mRNA associati alle cellule e nel plasma in un trial su 15 pazienti (CROI Poster Abstract 438LB).
“Noi pensiamo che questo composto sia in grado di attivare la produzione di virus in misura tale che effettivamente si producano particelle virali, che vengano poi rilasciate nel flusso sanguigno” – sostiene Rasmussen.

Altri trial su singoli LRA sono ancora in atto. Ricercatori australiani hanno riferito al CROI nel 2013 che il vorinostat aveva stimolato i livelli di mRNA associato alle cellule in 18 pazienti su 20, e anche il team di Margolis sta conducendo dei trial di follow-up degli studi clinici sul vorinostat. All’inizio di quest’anno, poi, è partito un trial sulla romidepsina condotto dall’AIDS Clinical Trials Group.
Anche Rasmussen e colleghi hanno di recente iniziato un trial sulla romidepsina somministrata insieme a un vaccino terapeutico, con l’idea di stimolare le risposte dei CD8 contro il virus riattivato.


Servono più test

Le scoperte fatte ultimamente da Siliciano mettono in evidenza la necessità di modelli migliori, che facciano migliori predizioni rispetto ai modelli usati fino ad oggi – aggiunge Werner Greene, un ricercatore della University of California, San Francisco. “Quello di cui abbiamo bisogno è una popolazione di cellule tratte dai pazienti che siano molto più pure ed omogenee rispetto a quelle che possiamo avere in numero illimitato” – dice, osservando che lui stesso sta collaborando allo sviluppo di tali cellule, mediante l’utilizzo di una tecnologia che permette di indurre cellule staminali pluripotenti.
Hazuda concorda sul fatto che testare i farmaci su cellule tratte da pazienti è importante, ma invita alla cautela, poiché non è ancora sicuro che i test sulle cellule dei pazienti siano migliori di altri tipi di esperimenti. “Finché non otterremo davvero dati in vivo per costruire dei modelli standardizzati sarà difficile dire che un test è più utile o fa predizioni migliori di un altro” – dice.

Ci sono diverse altre questioni ancora da risolvere. Per esempio, non è chiaro quanto virus sia necessario riattivare. “La misurazione importante, probabilmente, è quanto antigene viene esposto dalla cellula infetta “ – dice Margolis. “cioè, la cellula può essere identificata e distrutta?” Anche questo rende difficile valutare funzionalmente le risposte ai LRA.

Un’altra questione, poi, è che sia i modelli in vitro, sia i test ex vivo derivati dai pazienti come quello di Siliciano, usano linfociti T quiescenti circolanti. Ma le cellule latenti si ritiene stiano prevalentemente nei tessuti, come l’intestino e il sistema nervoso centrale, ed è possibile che queste cellule rispondano ai farmaci in modo diverso.

Può anche essere difficile trovare un equilibrio fra la riattivazione del virus e l’attivazione dei linfociti T, che inverte la latenza, ma può scatenare una tempesta di citochine. “Questa biologia del virus è così inestricabilmente legata all’attivazione dei linfociti T, che rischia di essere difficile trovare sostanze che stimolino l’espressione del virus senza però attivare la cellula” – dice Greene.

Nonostante tutto questo, i ricercatori sono ottimisti sul fatto che l’approccio con i farmaci anti-latenza possa funzionare. “Dobbiamo essere realisti e guardare al progresso che abbiamo fatto con un investimento che – relativamente parlando – non è stato enorme” – dice Margolis. “Questo campo di ricerca sta solo iniziando a muoversi”.

Continua nel prossimo post.



Dora
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Re: Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)?

Messaggio da Dora » sabato 4 aprile 2015, 15:36

L'IPOTESI DI UNA cALT (Terapia Anti-Latenza combinata) PRENDE SEMPRE PIÙ FORMA (cont.)

Sul Journal of Clinical Investigation, il 30 marzo scorso è uscita la continuazione della ricerca del Siliciano Lab sull’attività anti-latenza di diverse sostanze, alcune già sperimentate in trial clinici, altre non ancora: Ex vivo analysis identifies effective HIV-1 latency–reversing drug combinations.

L’idea che ha guidato questo lavoro è che se i diversi candidati, presi singolarmente, hanno dimostrato una capacità di inversione della latenza piuttosto modesta, qualche loro combinazione potrebbe invece beneficiare di un effetto sinergico, che potenzi gli effetti delle singole sostanze e causi una riattivazione del virus latente tale da stimolare l’espressione genica dell’HIV nelle cellule latentemente infette, così che queste siano suscettibili agli effetti citopatici del virus o all’azione citolitica dei CD8, o anche – e sarebbe addirittura meglio – tale da causare un rilascio nel plasma di HIV RNA in quantità sufficienti a comportare una effettiva riduzione del reservoir.

La condizione da cui non si può prescindere è che tutto questo avvenga senza una attivazione generalizzata dei linfociti T, che permetterebbe, sì, la trascrizione dell’HIV e dunque la produzione di virus capace di replicarsi, ma stimolerebbe anche un rilascio in massa di citochine che, con i loro effetti tossici, renderebbero impossibile l’uso in clinica dei farmaci studiati.

Siliciano spiega che per stabilire l’attività anti-latenza delle diverse sostanze bisogna confrontare le loro attività relative sia con i livelli di base di espressione genica dell’HIV nei CD4 quiescenti, che variano da una persona all’altra, sia con la massima attivazione dei linfociti T, che viene usata come controllo e fornisce il limite superiore standard dell’inversione della latenza (e corrisponde a un’induzione di circa 100 volte).
Finora di sostanze che raggiungano ex vivo un’inversione della latenza che sia paragonabile allo standard fornito dalla massima attivazione dei linfociti T non se ne sono trovate.
Di qui l’idea che l’unione di diverse sostanze anti-latenza, che agiscano secondo meccanismi differenti, potrebbe riuscire a prevalere sulla molteplicità dei meccanismi che – in vivo – governano la latenza dell’HIV. Di qui, anche, la necessità di uno studio comparativo fatto ex vivo, cioè sui CD4 quiescenti di persone in terapia, per stabilire l’efficacia relativa di diverse combinazioni.

DUE IMPORTANTI INNOVAZIONI METODOLOGICHE:

  • 1. Anzitutto, poiché ad oggi non esisteva un modello che permettesse di predire le risposte in vivo a un trattamento anti-latenza partendo da dati raccolti ex vivo, per selezionare i trattamenti ottimali è stato costruito un modello matematico che consente di stimare l’impatto del trattamento con sostanze anti-latenza sui livelli di HIV RNA nel plasma in vivo basandosi sulla misurazione ex vivo della produzione virale indotta dalla sostanza anti-latenza. L’aumento transitorio dei livelli di RNA virale nel plasma dopo la somministrazione di un agente anti-latenza può infatti essere considerato un indicatore dell’efficacia del trattamento.
    Questo modello di analisi quantitativa dell’efficacia ex vivo di una sostanza anti-latenza sarà utile di qui in poi per impostare delle strategie di inversione della latenza.

    2. In secondo luogo, i modelli che si usano di solito per stabilire se dei farmaci agiscono in modo sinergico non sono utilizzabili qui, perché si basano sull’assunzione che i farmaci abbiano lo stesso meccanismo d’azione. Quindi per misurare le interazioni fra sostanze anti-latenza sono stati confrontati gli effetti combinati osservati con gli effetti predetti da un modello di indipendenza (Bliss independence model), che assume che le diverse sostanze agiscano secondo meccanismi diversi in modo tale che i loro effetti risultino moltiplicati quando sono somministrate insieme: quando una combinazione di farmaci causa un effetto che supera in modo significativo quello predetto dal modello, allora si dice che c’è sinergia.


Il lavoro pubblicato oggi dal gruppo di Siliciano è consistito dunque

  • - nella misurazione dei livelli intracellulari di HIV-1 mRNA nei CD4 quiescenti e dei livelli di produzione dei virioni a seguito del trattamento con sostanze anti-latenza e
    - nell’identificazione di combinazioni di farmaci sinergiche, capaci di invertire la latenza del virus a dei livelli che si avvicinano a quelli della massima attivazione dei CD4 (usata come controllo e ottenuta stimolando i CD4 quiescenti con PMA + ionomicina).


Mentre si è confermato che le sostanza anti-latenza da sole fanno poco, delle 11 combinazioni testate, 10 hanno causato aumenti significativi dell’HIV RNA intracellulare. Si è visto che gli agonisti della PKC – protein-chinasi C (briostatina-1 e prostratina) sinergizzano in modo significativo sia con gli HDACi (vorinostat, panobinostat e romidepsina), sia con il JQ1, un inibitore del bromodominio BET. Invece, le combinazioni contenenti disulfiram, che si ritiene agisca attivando l’NF-kB, non hanno mostrato sinergia e si sono conformate alle predizioni fatte dal modello di indipendenza.

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Per quanto riguarda la possibile efficacia clinica delle combinazioni testate, la misurazione ex vivo della produzione di HIV RNA nel sangue ha mostrato in particolare che le combinazioni contenenti briostatina-1 o prostratina potrebbero causare degli aumenti dei livelli di RNA virale plasmatico facilmente intercettabili mediante i test standard di misurazione della viremia (con limite di rilevabilità a 50 copie/mL), perché superiori alle 100 copie/mL.

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Quando nelle combinazioni è stato messo uno di questi due agonisti della PKC si è potuta misurare una sostanziale produzione di virioni, a dei livelli simili a quelli visti con la completa attivazione dei CD4.

Gli HDACi potrebbero anche funzionare in una terapia combinata insieme a briostatina-1 o prostratina, nonostante il fatto che da soli facciano poco. Si è però visto che alcuni danneggiano la funzionalità dei CD8 citotossici, che servono a distruggere le cellule infette. Questa caratteristica degli HDACi potrebbe limitare la loro utilità clinica [e speriamo che Sharon Lewin, David Margolis e compagnia cantante riflettano su questo monito di Siliciano].
E soprattutto: lo studio pubblicato oggi ha dimostrato che gli agonisti della PKC sinergizzano anche con il JQ1, portando a una inversione della latenza molto consistente – questo potrebbe rendere del tutto non necessari gli HDACi.

Quindi la prima conclusione di Siliciano è l’ipotesi che

  • "L’INCLUSIONE DI AGONISTI DELLA PKC IN UN REGIME ANTI-LATENZA POTREBBE ESSERE SUFFICIENTE A INDURRE PRODUZIONE DI PROTEINE VIRALI CHE POTREBBE PORTARE ALL’ELIMINAZIONE DELLE CELLULE RIATTIVATE" (GRAZIE AGLI EFFETTI CITOPATICI DEL VIRUS O PER DISTRUZIONE IMMUNO-MEDIATA).


I risultati sugli agonisti della PKC visti finora forniscono dunque un razionale per studiare in modo approfondito i profili di sicurezza di una cALT che contenga questi farmaci.

Mentre la prostratina non è ancora mai stata testata in studi clinici su esseri umani e ci vorrà ancora del tempo prima che arrivi in fase clinica come anti-latenza, la sicurezza e l’efficacia della briostatina-1 sono state sperimentate in decine di trial di fase I e II per trattare diverse forme di cancro [ricordo che un trial sugli effetti della briostatina-1 sul reservoir latente di HIV è iniziato lo scorso ottobre e almeno i dati sui livelli di HIV RNA intracellulare dovrebbero arrivare quest’autunno].

Ora, la briostatina-1 viene vista con un po' di apprensione perché a dosaggi bassi è abbastanza ben tollerata, ma all’aumentare dei dosaggi può causare effetti collaterali di una certa serietà. Quindi Siliciano si pone la domanda se si riescano a raggiungere concentrazioni di questo farmaco tali da renderlo efficace contro il reservoir latente.
Ed è qui che l’idea di sfruttare gli effetti sinergici si fa particolarmente interessante, poiché si è visto che combinando la briostatina-1 con un HDACi si otteneva una consistente produzione di HIV RNA intracellulare. Questo potrebbe quindi permettere di usare dosi di briostatina abbastanza basse da evitarne le tossicità.

Di qui la seconda – molto cauta - conclusione di Siliciano:

  • "SULLA BASE DEI DATI CLINICI DISPONIBILI E DEI NOSTRI RISULTATI EX VIVO, NOI SUGGERIAMO CON PRUDENZA CHE PUÒ ESSERE POSSIBILE RAGGIUNGERE CONCENTRAZIONI DI BRIOSTATINA-1 IN VIVO CHE SIANO EFFICACI SFRUTTANDO LE SINERGIE DEL TIPO DESCRITTO QUI. DATE LE IMPREVEDIBILI TOSSICITÀ OSSERVATE NEI MODELLI ANIMALI, QUESTO APPROCCIO RICHIEDEREBBE UN’ESTREMA CAUTELA E UN MONITORAGGIO MOLTO ATTENTO DEL PAZIENTE" [e qui speriamo che Santiago Moreno e Carolina Gutierrez riflettano su questo invito alla cautela di Siliciano].




L'articolo di Siliciano contribuisce a porre le basi teoriche per la terapia anti-latenza combinata. Ma io vorrei ricordare che l'idea della cALT l'abbiamo già vista all'opera in (almeno) due sperimentazioni:

  • 1. una sui topi di Nussenzweig, che hanno ricevuto la combinazione di tre anticorpi (tri-mix: 3BNC117 [quello già in fase clinica], 10-1074, e PG16) e di tre “induttori” scelti per la loro provata capacità di indurre la trascrizione dell’HIV in vitro, per la loro sicurezza e perché se ne conoscono le proprietà farmacocinetiche nei topi (il vorinostat, che ben conosciamo, e che è l’unica sostanza fra le tre ad essere già stata testata sull’uomo, l’I-BET151, che è un inibitore della proteina BET, e il CTLA, che regola l’attivazione dei linfociti T). A circa la metà di questi topi le cose sono andate molto bene;

    2. una sulle scimmie di Gama, che hanno ricevuto Ingenol-B + vorinostat. Qui le cose sono andate molto meno bene, perché di due scimmie trattate una ha sviluppato una encefalite. Però questa combinazione è molto importante, perché l'Ing-B, proprio come briostatina-1 e prostratina, riattiva l'HIV dalla latenza sfruttando il meccanismo della PKC. Quindi sarà interessantissimo vederlo all'opera in combinazione con altri farmaci [peccato che Siliciano non l'abbia preso in considerazione in questo studio - non se lo faccia sfuggire, la prossima volta!].



admeto
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Re: Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)?

Messaggio da admeto » giovedì 16 aprile 2015, 19:43

  • "L’INCLUSIONE DI AGONISTI DELLA PKC IN UN REGIME ANTI-LATENZA POTREBBE ESSERE SUFFICIENTE A INDURRE PRODUZIONE DI PROTEINE VIRALI CHE POTREBBE PORTARE ALL’ELIMINAZIONE DELLE CELLULE RIATTIVATE" (GRAZIE AGLI EFFETTI CITOPATICI DEL VIRUS O PER DISTRUZIONE IMMUNO-MEDIATA).


Questo significa che non sarebbe necessaria una sostanza che rinforza i CD8, tipo vaccini o anticorpi altamente immunizzanti?
E un'altra domanda: questa nuova metodologia potrebbe essere applicata anche per valutare gli effetti dell'agonista alla TLR7 di cui parliamo in un altro thread?



Dora
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Re: Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)?

Messaggio da Dora » giovedì 16 aprile 2015, 21:15

admeto ha scritto:
  • "L’INCLUSIONE DI AGONISTI DELLA PKC IN UN REGIME ANTI-LATENZA POTREBBE ESSERE SUFFICIENTE A INDURRE PRODUZIONE DI PROTEINE VIRALI CHE POTREBBE PORTARE ALL’ELIMINAZIONE DELLE CELLULE RIATTIVATE" (GRAZIE AGLI EFFETTI CITOPATICI DEL VIRUS O PER DISTRUZIONE IMMUNO-MEDIATA).
Questo significa che non sarebbe necessaria una sostanza che rinforza i CD8, tipo vaccini o anticorpi altamente immunizzanti?
Non credo, no. La distruzione mediata dai CD8 deve avvenire grazie a dei CD8 belli combattivi e sappiamo che l'infezione da HIV li ammoscia un po'.
Io credo che qui Siliciano stia dicendo semplicemente che non hai bisogno di una completa trascrizione del virus perché il virus distrugga le cellule latentemente infette o i CD8 e cellule NK - opportunamente rinforzati - le riconoscano come un obiettivo da far fuori. Devi però riuscire, con le tue sostanze anti-latenza, a far esprimere almeno qualche proteina virale.
E un'altra domanda: questa nuova metodologia potrebbe essere applicata anche per valutare gli effetti dell'agonista alla TLR7 di cui parliamo in un altro thread?
Non lo so, perché mentre ho capito che il GS-9620 stimola l'attivazione dei CD8 e delle NK, non mi è chiaro se e come funzioni direttamente come sostanza anti-latenza. Da quanto ho capito, induce la produzione di interferoni e citochine che stimolano l'attivazione dei CD4 latentemente infetti e a quel punto quelli si mettono a produrre virus (fra l'altro, virus capace di replicazione, mentre di virus difettivo non se ne è visto).
Una cosa che non mi è assolutamente chiara è che cosa accada quando viene somministrato (alle cellule, per ora) insieme a un agonista della PKC (una sostanza che sfrutta dunque lo stesso meccanismo di riattivazione dell'HIV latente di prostratina, briostatina-1 e ingenol-B). Infatti, nel poster portato al CROI da Gilead si è vista una "riduzione della risposta del reservoir latente" e si dice che devono ancora indagare per capire se questo significhi una riduzione del reservoir. Ma è una frase che mi pare ambigua, perché questa "ridotta risposta" potrebbe anche indicare che le due sostanze hanno contrastato l'una l'effetto dell'altra e quindi lasciato il reservoir lì a dormire. Insomma, l'opposto degli effetti sinergici cercati da Siliciano.
Prendi quel che ti dico con mooolto scetticismo, perché ci sono troppi aspetti che non ho chiari. Magari quando uscirà l'articolo capirò qualcosa di più.



admeto
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Re: R: Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)

Messaggio da admeto » venerdì 17 aprile 2015, 10:07

Grazie Dora



Dora
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Re: Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)?

Messaggio da Dora » venerdì 25 settembre 2015, 7:46

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È GIUNTO IL MOMENTO DI ABBANDONARE I TRIAL SULLA CURA BASATI SU UN SINGOLO INTERVENTO?


Nonostante di solito valga la Legge di Betteridge per i titoli, secondo cui “a ogni titolo che termina con un punto di domanda, si può rispondere con un no”, questa volta la risposta di Françoise Barré-Sinoussi e Jintanat Ananworanich è un chiaro e sonante SÌ!
E questo sì per nulla retorico le due scienziate lo argomentano in un commento pubblicato su The Lancet HIV di ottobre, in cui riprendono tante delle considerazioni che abbiamo fatto nel forum negli ultimi tre anni e propongono una molto ragionevole e da tempo attesa roadmap per accelerare la ricerca di una cura.
Pur estremamente conciso, per la sua chiarezza concettuale e per l’autorevolezza delle autrici questo articolo è verosimilmente destinato a segnare la discussione della comunità scientifica, che è chiamata ad unire le forze e a non perdere altro tempo. Credo quindi che meriti di essere tradotto per intero.



Is it time to abandon single intervention cure trials?
  • Una sola persona al mondo è stata curata dall’HIV. Il Berlin Patient ha ricevuto un trapianto di staminali CCR5-negative e resistenti all’HIV per curare un cancro e questo ha eradicato il suo HIV. (1) Reso pubblico nel 2009, il caso ha rinnovato l’interesse per la ricerca di una cura. Ma che cosa è accaduto negli anni successivi? Nel 2013, l’apparente remissione dell’HIV (cioè una viremia plasmatica irrilevabile in assenza di terapia antiretrovirale o ART) nei due Boston Patients che avevano ricevuto un trapianto di staminali CCR5-positive e dunque infettabili da HIV per curare un cancro (2) e nella Mississippi Baby trattata con ART prestissimo, appena nata (3), fu seguita dalla delusione quando l’HIV ricomparve in seguito in tutti e tre.

    Gli studi con sostanze anti-latenza per riattivare i virus nascosti hanno universalmente fallito nel distruggere abbastanza DNA provirale ed eliminare le cellule infette. (4) La coorte VISCONTI di adulti in remissione da più di 10 anni rimane unica, ma ha rafforzato la rilevanza della ART precoce nella ricerca di una cura dell’HIV. (5) Nessun trial su un vaccino terapeutico in esseri umani ha prodotto i benefici sostanziali necessari per eliminare le cellule infette da HIV, anche se dei vaccini studiati di recente negli animali dimostrano del potenziale. (6) Gli anticorpi ampiamente neutralizzanti possono abbassare la viremia di HIV, ma ciò nonostante si ritiene che non siano in grado di colpire le cellule latentemente infette. (7) La modificazione genica e le terapie cellulari che rendono le cellule staminali resistenti all’HIV o più capaci di ucciderlo sono promettenti, ma comportano dei rischi e hanno problemi di scalabilità. (8) Sono stati fatti molti progressi nella comprensione dei meccanismi della persistenza di HIV, della distruzione immune e dell’attivazione immune. Queste ricerche mettono in evidenza la misura in cui l’HIV ha imparato ad evadere la risposta immune per restarsene nascosto in diversi tipi di cellule e di tessuti. I limiti dei campioni di tessuti e degli strumenti tecnologici per stimare i reservoir di HIV ostacolano la misurazione negli esseri umani degli effetti degli interventi sulla persistenza di HIV.

    La questione chiave ora è come possiamo fare passi avanti significativi nella ricerca di una cura dell’HIV nei prossimi 5 anni? Sulla base dell’esperienza ricavata dagli studi correnti, è improbabile che singoli interventi terapeutici portino a una remissione duratura di HIV. (9) Le terapie di combinazione sono di gran lunga più promettenti, ma la ricerca continua ad avere difficoltà nell’identificazione di queste possibili combinazioni. Questo ci porta alla domanda cruciale: quali sono le strade migliori per arrivare a una cura di combinazione? L’approccio consueto sarebbe di iniziare con trial su terapie singole nei modelli animali per valutare gli endpoint di sicurezza e potenza, e poi di procedere a trial negli uomini per determinare la sicurezza prima di muoversi verso i trial di efficacia. Ogni passo richiede anni e viene ripetuto quando i composti sono combinati. Se si procede così, una cura dell’HIV si allontana troppo nel futuro.

    Come possiamo innovare il processo delle cure di combinazione? Noi riteniamo che sia giunto il momento di muoversi direttamente dagli studi in vitro ai trial di terapie combinate negli animali e poi negli uomini. Le preoccupazioni riguardo alle scarse informazioni su farmaci sperimentali che non sono stati studiati individualmente potrebbero essere ridotte usando modelli animali per investigare i meccanismi e capire i successi e i fallimenti. I modelli animali ci danno la possibilità di testare l’attività degli interventi, di indagare i marker e di fare ampi studi sui tessuti.

    Le combinazioni potrebbero essere attentamente selezionate sulla base di ampi studi in vitro e dei dati esistenti sugli animali e sugli uomini e gli studi sull’uomo potrebbero svolgersi in parallelo.

    Immagine

    Ciascun regime potrebbe essere impostato su due o più composti che colpiscono l’HIV secondo modalità diverse. Un esempio è una o più sostanze anti-latenza più agenti immunoterapeutici, che forniscano immunità umorale passiva e cellulare attiva contro le cellule infettate dal virus. Un altro include la terapia genica per rendere le cellule resistenti al virus più immunotossine per colpire le cellule già infette nei tessuti e nel sangue periferico. Le combinazioni sicure vengono selezionate per procedere simultaneamente a studiarne l’efficacia negli animali e la sicurezza negli studi di fase 1 sugli uomini. Una volta che si hanno informazioni da questi studi, le combinazioni vengono selezionate per procedere immediatamente agli studi di fase 2 sull’uomo. L’efficienza e fattibilità di questo approccio si basa in modo essenziale su revisioni regolatorie e processi di approvazione accelerati. Il coinvolgimento dei pazienti e della community è vitale.

    Riuscirebbe questo tipo di roadmap ad accelerare l’approvazione del contemporaneo sviluppo di due o più nuovi farmaci sperimentali da usarsi in combinazione? Secondo l’orientamento della Food and Drug Administration americana, devono essere soddisfatti certi criteri: anzitutto, quello in sviluppo deve essere un composto per trattare una malattia grave; in secondo luogo, deve esserci un forte razionale biologico per l’uso in combinazione; in terzo luogo, le ragioni per cui ci si attende che la sostanza abbia un’attività limitata se usata in monoterapia devono essere convincenti; infine, una completa caratterizzazione non-clinica o uno studio clinico di breve durata devono far ipotizzare che una combinazione sia superiore ai farmaci individuali. Anche se l’ultimo punto può far pensare che servirebbero dei trial su uomini per i singoli interventi, noi sosteniamo che, dato quel che abbiamo imparato fino ad oggi dai trial su interventi singoli, questo criterio potrebbe essere soddisfatto con dati ricavati da studi su animali. Inoltre, diversi possibili composti per cercare una cura dell’HIV sono stati ampiamente usati nella ricerca e nel trattamento di problemi autoimmuni e cancro; perciò sono disponibili per altre indicazioni dei dati sulla sicurezza adeguati.

    Anche se HIV si sta trasformando in una patologia cronica trattabile, la ART da sola non riuscirà a curarlo. Per bilanciare la sicurezza dei pazienti e i possibili risultati scientifici, la roadmap che abbiamo proposto richiede la collaborazione e la coordinazione fra ricercatori preclinici, clinici, bioetici e del comportamento da diverse discipline, sia dentro, sia fuori il campo dell’HIV, per fare trial di combinazioni che abbiano la capacità di spingere avanti la ricerca. È importante identificare dei modi etici per studiare la cura dell’HIV, in particolare in queste fasi iniziali, in cui il rapporto rischio-beneficio è alto e possono non esserci guadagni individuali. (11) Ugualmente importante è capire come comunicare la ricerca ai partecipanti ai trial e alla community. Si ritiene che le terapie singole presentino meno rischi, ma partecipare a questi trial con nessuna o ben poche possibilità di successo comporta comunque dei rischi. Inoltre, alcune terapie, come gli anticorpi ampiamente neutralizzanti, sono associate a resistenze quando si usa un solo anticorpo. È essenziale studiare gli aspetti sociali, comportamentali ed etici della ricerca di una cura dell’HIV in parallelo con i trial preclinici e clinici.

    Come possiamo fare progressi significativi verso la cura per i 35 milioni di persone che nel mondo vivono con HIV e per i 2,5 milioni che si infettano di nuovo ogni anno? È giunto il tempo di mettere in comune i nostri lavori migliori per interrogare criticamente i dati esistenti e produrre nuovi dati in vitro per identificare le terapie di combinazione più promettenti da studiare negli animali per poi passare ai trial sugli uomini. La roadmap guidata dai dati che abbiamo proposto ci permetterà di accelerare gli sforzi per portare l’HIV ad essere, da una malattia incurabile, una remissione duratura.


Bibliografia
1 Hutter G, Nowak D, Mossner M, et al. Long-term control of HIV by CCR5 Delta32/Delta32 stem-cell transplantation. N Engl J Med 2009; 360: 692–98.
2 Henrich TJ, Hanhauser E, Marty FM, et al. Antiretroviral-free HIV-1 remission and viral rebound after allogeneic stem cell transplantation: report of 2 cases. Ann Intern Med 2014; 161: 319–27.
3 Luzuriaga K, Gay H, Ziemniak C, et al. Viremic relapse after HIV-1 remission in a perinatally infected child. N Engl J Med 2015; 372: 786–88.
4 Elliott JH, Wightman F, Solomon A, et al. Activation of HIV transcription with short-course vorinostat in HIV-infected patients on suppressive antiretroviral therapy. PLoS Pathog 2014; 10: e1004473.
5 Saez-Cirion A, Bacchus C, Hocqueloux L, et al. Post-treatment HIV-1 controllers with a long-term virological remission after the interruption of early initiated antiretroviral therapy ANRS VISCONTI Study. PLoS Pathog 2013; 9: e1003211.
6 Mylvaganam GH, Silvestri G, Amara RR. HIV therapeutic vaccines: moving towards a functional cure. Curr Opin Immunol 2015; 35: 1–8.
7 Caskey M, Klein F, Lorenzi JC, et al. Viraemia suppressed in HIV-1-infected humans by broadly neutralizing antibody 3BNC117. Nature 2015; 522: 487–91.
8 Leibman RS, Riley JL. Engineering T cells to functionally cure HIV-1 infection. Mol Ther 2015; 23: 1149–59.
9 Halper-Stromberg A, Lu CL, Klein F, et al. Broadly neutralizing antibodies and viral inducers decrease rebound from HIV-1 latent reservoirs in humanized mice. Cell 2014; 158: 989–99.
10 US Food and Drug Administration. Therapeutic biologic applications (BLA). http://www.fda.gov/downloads/drugs/guid ... 236669.pdf (accessed June 8, 2015).
11 Lo B, Grady C. Ethical considerations in HIV cure research: points to consider. Curr Opin HIV AIDS 2013; 8: 243–49.
12 Peay HL, Henderson GE. What motivates participation in HIV cure trials? A call for real-time assessment to improve informed consent. J Virus Erad 2015; 1: 51–53.



Dora
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Re: Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)?

Messaggio da Dora » mercoledì 14 settembre 2016, 8:33

Immagine

Poiché il sito di Aphios non offre immagini utili dei nanosomi, questa immagine è una manipolazione della raffigurazione di un liposoma che si trova su Wiki.


NANOSOMI PER UNA cALT 2.0


Un esempio di cALT e forse addirittura un passo oltre la cALT come l'abbiamo vista teorizzare fino ad ora arriva da un comunicato stampa di Aphios, una società biotech con sede a Woburn, Massachusetts, che produce piattaforme tecnologiche per la scoperta, la produzione e la somministrazione di farmaci.

La cALT 2.0 annunciata da questa società prevede lo sviluppo di una terapia antilatenza combinata formata da un modulatore della protein-chinasi C e da un inibitore della iston-deacetilasi.
Sappiamo che sono classi di sostanze che sfruttano due diversi meccanismi per stimolare l'uscita di HIV dalla latenza e l'inizio della trascrizione virale (percorso NF-kB e rimodellamento della cromatina), quindi l'idea di usare un attivatore della PKC insieme a un HDACi è già da qualche anno nell'aria.
La novità proposta da Aphios è di colpire le cellule latentemente infette con nanoparticelle di queste sostanze, cioè di combinare un attivatore della PKC con un HDACi in nanosomi, che sono liposomi microscopici, in scala nanosomica (1 nanometro è 1 miliardesimo di metro - 10^-9).

Trevor Castor, CEO e principale scienziato della società impegnato in questa ricerca, è almeno dal 2005 che sta lavorando sui nanosomi fosfolipidici da usarsi contro HIV.

Aphios adesso ha ricevuto un finanziamento dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), e potrà contare sulla consulenza di Robert Siliciano, che valuterà ex vivo la combinazione di PKC-HDACi nei nanosomi, degli spagnoli Eduardo Munoz e Santiago Moreno e di Joseph Bryant, che lavora all'Institute of Human Virology di Gallo ed è un esperto di modelli animali, quindi analizzerà la tossicità e l'efficacia dei nanosomi in vivo quando si arriverà a testarli su animali.

Quali siano il modulatore della PKC e l'HDACi trasportati in minuscole quantità nelle vescicole fosfolipidiche all'attacco del reservoir, il comunicato stampa non lo dice. Ma la collaborazione degli spagnoli che hanno fatto il trial sulla briostatina mi fa pensare che proprio questa sarà la componente scelta per stimolare l'NF-kB. Per l'HDACi, vedremo.



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Re: Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)?

Messaggio da uffa2 » mercoledì 14 settembre 2016, 9:18

Non so cosa ne pensi tu Dora, più che l'idea della combinazione (in fondo i singoli hanno più o meno tutti fallito, quindi il dubbio che servisse una combinazione...) mi affascina l'idea dei nanosomi che si candida a superare senza problemi la barriera ematoencefalica, tu che ne pensi?

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Re: Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)?

Messaggio da Dora » mercoledì 14 settembre 2016, 9:33

uffa2 ha scritto:Non so cosa ne pensi tu Dora, più che l'idea della combinazione (in fondo i singoli hanno più o meno tutti fallito, quindi il dubbio che servisse una combinazione...) mi affascina l'idea dei nanosomi che si candida a superare senza problemi la barriera ematoencefalica, tu che ne pensi?
Ci sono diversi gruppi che stanno lavorando a nanoformulazioni, sia contro il reservoir, sia per gli antiretrovirali - singoli, ad esempio atazanavir, o la rilpivirina (ma anche altri) - o in combinazione con effetto long acting.
Qui però vedo scendere in campo Siliciano, quindi ho intenzione di osservare questa ricerca con particolare attenzione. ;)

Sul passaggio della barriera: tutto molto bello, però se esiste un reservoir nel sistema nervoso centrale e del virus latente viene riattivato senza che ci sia modo di distruggere le cellule latentemente infette, i problemi in quel comparto rischiano di essere più gravi che altrove. Quindi credo ci voglia qualche cautela in più.
Ultima modifica di Dora il mercoledì 14 settembre 2016, 9:48, modificato 1 volta in totale.



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Re: Dalla cART alla cALT (Terapia Anti-Latenza combinata)?

Messaggio da uffa2 » mercoledì 14 settembre 2016, 9:47

Sì, qui c'è Siliciano, almeno se ci sono brutte sorprese non ci saranno illusioni prima ;-)

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