ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZIONI?

Ricerca scientifica finalizzata all'eradicazione o al controllo dell'infezione.
Dora
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ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZIONI?

Messaggio da Dora » martedì 18 febbraio 2014, 12:49

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Era da tempo che pensavo di scrivere un post sui diversi concetti di cura che circolano nelle discussioni sulla ricerca di una cura dell’infezione da HIV – almeno da quando i medici che continuano a seguire Timothy Brown hanno dimostrato che perfino nel più probabile caso di eradicazione è ancora possibile trovare tracce di DNA virale, rendendo così più sfumato il concetto di “cura sterilizzante” e facendomi capire che la cura dell’HIV è probabilmente un continuum in cui ha poco senso porre delle soluzioni di continuità - un continuum che parte dalla soppressione della viremia (per vie "naturali" o farmacologiche), ha come limite l’eradicazione e lungo il quale si dispongono i singoli casi personali.

Negli ultimi giorni sono stati pubblicati ben tre articoli che affrontano questioni di definizioni e che mostrano in quale ginepraio ci si impigli quando si cerca di fare un po’ d’ordine fra i concetti.
I primi due articoli – uno su AIDS (A systematic review of definitions of extreme phenotypes of HIV control and progression) e uno su PLoS ONE (An Evaluation of HIV Elite Controller Definitions within a Large Seroconverter Cohort Collaboration) – la questione delle definizioni di cura la prendono molto alla larga, trattando in realtà di elite controllers.

Poiché gli elite, per la loro capacità di controllare la replicazione dell’HIV senza bisogno di farmaci, si ritiene possano per certi aspetti costituire un modello cui ispirarsi per trovare una cura funzionale, sintetizzerò una recensione di quei due articoli fatta da Richard Jefferys, usando il suo post come introduzione al mio.

Il termine “elite controller” viene applicato a un piccolo gruppo di persone HIV+ che riescono a mantenere viremia irrilevabile in assenza di qualsiasi trattamento. Il criterio per definire gli elite, però, varia da uno studio all’altro, soprattutto quando si tratta di stabilire la durata del controllo virale.
Un gruppo di ricerca britannico ha pubblicato di recente due lavori – una review sistematica (quella resa open access su AIDS) e una ricerca (quella su PLoS ONE) – in cui hanno tentato di raccogliere le svariate definizioni esistenti in letteratura e identificare quelle più accurate per arrivare a un consenso all’interno della comunità scientifica e avere coerenza fra i diversi studi.

Nella review sono stati esaminati ben 501 studi per raccogliere le definizioni di gruppi di persone HIV+ che si trovano ad entrambi gli estremi dello spettro della progressione della malattia: progressori rapidi, progressori lenti, non-progressori a lungo termine ed elite controller. Quel che si è visto è che le definizioni di ciascun gruppo possono variare di molto, ma anche sovrapporsi. A volte, però, piccole differenze hanno come conseguenza che definizioni simili catturino popolazioni notevolmente diverse.

Per limitarci agli elite, gli autori della review hanno identificato una babele di ben 50 definizioni, in cui la soglia della viremia varia fra 40 e 500 copie, con la soglia delle 50 copie come la più comune, e la durata del follow up varia da 6 mesi a 16 anni.

Nell’articolo su PLoS ONE, gli autori hanno preso in considerazione 10 definizioni di elite controller e ne hanno valutato la correttezza usando i dati dei quasi 25.700 partecipanti della coorte CASCADE, composta di persone seguite fin dal momento della sieroconversione. Per le persone che ricadevano in ciascuna diversa definizione di elite controller sono stati valutati differenti aspetti, fra cui per quanto tempo hanno continuato a corrispondere alla definizione, la progressione della malattia, la viremia, il numero e la curva discendente dei CD4.

I risultati hanno confermato che gli elite sono molto rari. Infatti, la maggior parte delle definizioni catturava circa l’1% dei partecipanti, talvolta anche meno. Inoltre, pochissimi fra loro corrispondevano alla definizione più restrittiva che prevedeva l’essere HIV+ per più di 10 anni e con la viremia costantemente sotto le 50 copie ad ogni prelievo.
Mentre il rischio di progressione della malattia è stato confermato minore fra gli elite controller rispetto ai semplici controller, i ricercatori hanno osservato che in tutte le definizioni di elite prese in considerazione si verificavano comunque eventi indicatori di progressione dell’infezione, in particolare il declino dei CD4.

La conclusione che ne hanno tratto è che è improbabile che la maggior parte degli elite riesca a rimanere tale per un tempo indefinito.

Se a questo aggiungiamo il fatto che anche gli elite presentano sovente elevati livelli di attivazione immunitaria a indicazione di una non perfetta protezione dalla progressione della malattia, si capisce come difficilmente lo stato di elite controller possa costituire un buon modello di cura funzionale.



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Re: ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZI

Messaggio da Dora » martedì 18 febbraio 2014, 12:54

Veniamo ora al terzo articolo uscito in questi giorni. È una ”opinione” pubblicata su AIDS dai ricercatori francesi che studiano la coorte VISCONTI, i cui sviluppi stiamo seguendo nel thread ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reservoir?
Asier Saéz-Cirión e colleghi ragionano infatti sui loro pazienti e su altre (poche) persone seguite in altri studi, che hanno mantenuto un controllo delle viremie dopo aver sospeso la ART iniziata in fase molto precoce dopo la sieroconversione, chiedendosi "What is the significance of posttreatment control of HIV infection vis-à-vis a functional cure?"

In sostanza: essere post-treatment controller (PTC) è uno stato permanente? Almeno duraturo? Che garanzie ci sono che durerà?
Dobbiamo considerarlo “cura” o “remissione”? Possiamo vederlo come un modello di cura funzionale, intesa come “mantenimento della viremia a un livello basso o irrilevabile dopo la sospensione della ART"?
Oppure questi pazienti sono stati seguiti per un tempo ancora troppo breve perché si possa pensare che "ce l'abbiano fatta"?

Gli “elite controller” di cui abbiamo parlato nel post precedente – che Saéz-Cirión e colleghi definiscono come “persone capaci di mantenere spontaneamente la viremia sotto le 50 copie/mL senza mai essere state trattate [farmacologicamente]” – spesso vengono presi ad esempio di cura funzionale. Anche i “post-treatment controller” (detti anche “secondary controller”) possono offrire qualche spunto per capire in che cosa debba consistere una cura funzionale? Possono aiutarci a capire come arrivarci, a una cura funzionale?

Svariati studi fatti su persone con infezione cronica hanno dimostrato che interrompere il trattamento anche dopo molti anni di soppressione della viremia comporta un rebound molto rapido della viremia stessa e può addirittura essere dannoso, specialmente per persone che partivano da un basso nadir dei CD4.
Di recente sono stati segnalati casi sporadici di persone trattate in fase cronica per molto tempo che, quando hanno sospeso la ART, sono riuscite a mantenere per mesi o anche qualche anno un certo controllo delle viremie. In questi casi, però, c’è qualche prova che la fitness del virus non fosse proprio esaltante.

Di contro, sia studi osservazionali, sia trial clinici, hanno fatto ipotizzare che la ART iniziata durante l’infezione primaria seguita da un’interruzione del trattamento possa comportare un ritardo nel rebound della viremia e nella progressione della malattia. Inoltre, in alcuni casi si è visto che questo rebound non si è verificato per molti mesi e addirittura anni.

La PHIprimary HIV infection - è definita in alcuni studi come l’avere un Western Blot negativo o indeterminato con un test ELISA positivo alla p24 o una PCR che dimostra concentrazioni di HIV RNA rilevabili; oppure come un test negativo nei 6 mesi precedenti la sieroconversione.
In altri studi, invece, la PHI è definita come un Western Blot negativo o incompleto e un test Ag + p24 positivo, oppure come un test anticorpale positivo con uno negativo nei 3 mesi precedenti.

Saéz-Cirión e colleghi ricordano diversi studi sui post-treatment controller – dai 24 pazienti di Steingrover ai 32 di Hocqueloux, alla coorte francese ANRS PRIMO, alla coorte VISCONTI, allo studio CASCADE. Nella maggior parte di questi studi la ART è stata iniziata così presto che è impossibile dire se qualcuno dei pazienti che ha controllato bene la viremia quando l’ha sospesa sarebbe diventato un elite controller. Inoltre, in tutte queste coorti non sono stati valutati i meccanismi immunologici e/o virologici che potrebbero spiegare che cosa ha trasformato alcuni pazienti in PTC.

Quello che però si è visto nella VISCONTI è che nessuno dei PTC aveva un profilo HLA che avrebbe potuto renderlo un elite. Inoltre, si è visto che i PTC, quando erano in fase acuta e prima di iniziare la terapia, avevano viremie più alte e CD4 più bassi di quelli che in genere hanno gli elite. Di contro, durante la fase di soppressione della viremia, i PTC avevano una più bassa attivazione immunitaria e un’attività soppressoria dei CD8 molto più bassa rispetto agli elite.
Il DNA provirale associato alle cellule dopo la sospensione della terapia era bassissimo nei PTC della VISCONTI (più basso rispetto a quello che si trova nei LTNP), si associava soprattutto ai CD4 memoria transitori e – cosa molto importante – in alcuni PTC tendeva a diminuire nel tempo, pur in assenza di trattamento.
In tutti i casi, però, l’HIV poteva essere isolato e fatto proliferare in coltura, anche se non sono stati fatti studi approfonditi sulla fitness del virus.

In conclusione, i PTC sono diversi dagli elite e costituiscono una categoria piuttosto eterogenea, che deve essere studiata bene attraverso ampi studi osservazionali e con lunghi follow up, per capire sia i meccanismi per i quali si diventa post-treatment controller, sia se esistono elementi che possano far predire l’acquisizione di questo status, sia se si tratti di uno status duraturo, o magari anche permanente.



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Re: ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZI

Messaggio da Dora » mercoledì 25 giugno 2014, 11:31

La difficoltà di definire in modo univoco il concetto di "cura dell'infezione da HIV" è stata analizzata la settimana scorsa da ricercatori e attivisti americani durante una giornata di discussione organizzata a Washington dal Forum for Collaborative HIV Research, insieme agli NIH e alla FDA.
Al Workshop on HIV Cure Research sono stati affrontati diversi argomenti connessi ai percorsi regolatori della ricerca di una cura, spaziando dalla necessità di definire le aspettative dei partecipanti ai trial al tipo di consenso informato da far firmare ai volontari, alla gestione di rischi e benefici di questo tipo di sperimentazioni, a diversi casi di studio (protocollo REDUC di romidepsina e Vacc-4x, vorinostat, etc.).

John Mellors e Mike Miller hanno riassunto le discussioni di un panel di esperti (scienziati e attivisti), che si sono concentrati sulla definizione degli obiettivi dei trial sulla ricerca di una cura e dei marker utili/necessari per capire se una cura è stata ottenuta.
Jintanat Ananworanich e Joe Eron hanno coordinato un gruppo che ha definito vantaggi, problemi e questioni ancora aperte dei tre tipi fondamentali di trial volti a cercare una cura: quelli basati su attivazione delle cellule e distruzione della latenza, quelli con sostanze immunomodulanti e quelli di terapia genica – con particolare attenzione alla questione trasversale rispetto a tutte queste sperimentazioni: quella delle interruzioni analitiche del trattamento (ATI).
Infine, Timothy Henrich e David Evans hanno affrontato le questioni etiche sollevate da questo tipo di trial: dal reclutamento dei pazienti alle informazioni da esporre nei moduli di consenso perché il consenso dato sia davvero "informato".

A ciascuna delle relazioni ha fatto seguito una serie di domande e precisazioni da parte del pubblico presente in sala (tutta la giornata è stata trasmessa in streaming, ma per ora il video non è stato messo online).

Quella che segue è la mia sintesi di quanto è stato detto durante le relazioni principali.

Per capire se una cura è stata raggiunta, è necessario avere prima definito quali [divbox]marker biologici (sia virologici, sia immunologici)[/divbox] possano essere utilizzati per stabilirne il successo: poiché la definizione del “successo” della cura è probabilmente diversa a seconda del tipo di intervento terapeutico che viene fatto/studiato durante il trial clinico, questo significa – a parere di scienziati come David Margolis, Janet Siliciano, Nicolas Chomont e tanti altri che componevano questo gruppo di lavoro - che dovranno esserci diversi marker per i diversi obiettivi dei trial.

In secondo luogo, bisogna riuscire a definire qual è il contributo delle singole componenti delle terapie testate e delle combinazioni nel loro insieme. Bisogna pertanto essere in grado di definire nei dettagli quali prove dimostrino l’efficacia delle singole sostanze testate all’interno di combinazioni di farmaci.

Ad oggi non esistono marker validati che predicano l’effetto terapeutico di un intervento curativo: nessuno dei test esistenti è stato standardizzato o validato, perché finora tutti sono stati messi alla prova su un numero troppo piccolo di pazienti e tutti hanno dato risultati estremamente variabili.

I [divbox]marker virologici[/divbox] da prendere in considerazione sono:

  • Immagine l’HIV DNA totale e integrato (compreso il DNA totale associato al tessuto linfoide dell’intestino – GALT – e il rapporto RNA/DNA dell’HIV nel retto);
    Immagine l’HIV RNA associato alle cellule (per il quale è necessaria una maggiore chiarezza riguardo a quali specie di RNA si misurano);
    Immagine l’HIV RNA nel plasma;
    Immagine l’RNA associato alle cellule che può essere indotto a replicarsi o la produzione di virus dai CD4 quiescenti e totali;
    Immagine il recupero di virus infettivo dai CD4 quiescenti.


I [divbox]marker immunologici[/divbox] da prendere in considerazione sono:

  • Immagine la produzione di citochine;
    Immagine i linfociti T HIV-specifici e la PD-1;
    Immagine gli anticorpi anti-HIV;
    Immagine i marker di attivazione (in particolare, CD38 e HLA-DR).



Oltre alla questione della definizione di marker che facciano capire esattamente che cosa si è fatto e permettano di quantificare quel che si è fatto, dai gruppi di lavoro riuniti dal Forum for Collaborative HIV Research sono arrivate delle considerazioni su come debbano essere impostati i trial e valutati i [divbox]rischi e benefici[/divbox] connessi.
Le sperimentazioni cliniche proof of concept su una singola sostanza dovrebbero riuscire a dimostrare sia un profilo di sicurezza accettabile, sia un’attività biologica in qualche modo misurabile. Inoltre, basandosi anche sui dati raccolti nelle fasi pre-cliniche (cellule e animali), dovrebbero spiegare in base a quale meccanismo agisce la sostanza studiata.
Poiché questi studi così pionieristici offrono grandi benefici scientifici e sociali, ma ben pochi benefici individuali, per stimare i “rischi accettabili”, i partecipanti ai trial con viremia soppressa dovrebbero essere considerati simili ai “volontari sani”.

La [divbox]valutazione delle tossicità[/divbox] deve essere fatta sia a breve, sia a lungo termine (fino a 15 anni nel caso di interventi di terapia genica) e per ogni sostanza sperimentata serve un “piano di riduzione del rischio” che tenga conto di ogni tossicità conosciuta e anche del fatto che i modelli animali potrebbero non essere in grado di ricapitolare in modo completo le tossicità connesse con il tipo di intervento fatto.
Quando poi venissero sperimentate combinazioni di sostanze, i problemi di tossicità potrebbero essere complicati dall’effetto sinergico dei composti studiati.

Per costruire dei trial che corrispondano a criteri di sicurezza molto rigidi per i partecipanti, l’idea è che i protocolli debbano ridurre i rischi mediante

  • Immagine basso numero dei partecipanti ai trial pilota;
    Immagine criteri di inclusione e di esclusione molto stretti, con la definizione di parametri che siano specifici per gli interventi fatti: dimensioni del reservoir dell’HIV, età, numero e nadir dei CD4, set point della viremia, condizioni cliniche generali;
    Immagine studi su dosaggi singoli e con aumento graduale delle dosi– specie in caso di farmaci nuovi;
    Immagine arruolamento scaglionato dei pazienti.



Una [divbox]interruzione analitica del trattamento (ATI)[/divbox] è un passo considerato necessario in questi trial volti alla ricerca di una cura. Ma nessuno dei partecipanti ai gruppi di discussione è disposto a trattare le sospensioni terapeutiche con leggerezza, poiché i rischi associati sono noti e vanno da eventi clinici connessi al rebound delle viremie (la cui cinetica è stata ampiamente descritta nei pazienti in fase cronica) al rischio di trasmissione dell’infezione, al rischio che si sviluppino resistenze, al ripopolamento del reservoir virale e alla diversificazione del virus, fino al peggioramento della risposta immune HIV-specifica.

La tabella che segue sintetizza i tipi di interruzione di trattamento possibili e i possibili rischi per i partecipanti ai trial:

Immagine

È dunque necessario definire i [divbox]criteri sulla cui base consentire una interruzione analitica del trattamento[/divbox], in particolare, capire

  • Immagine quali pazienti si possano permettere di sospendere la terapia (con grande enfasi sulla massima riduzione dei rischi connessi, l’idea è che debba trattarsi di persone con alti CD4, almeno 350 se non 500, con nadir dei CD4 >200, che dispongano di opzioni alternative di ART, che non abbiano avuto in precedenza infezioni opportunistiche o cancro e che non presentino rischi di disturbi cardiovascolari, epatici o renali);

    Immagine come impostare l’interruzione (questo dipende dal tipo di intervento fatto e dalla probabilità di rebound della viremia e impone un monitoraggio molto frequente dei pazienti: 1-3 volte a settimana per le prime 3-4 settimane, in seguito meno spesso). L’endpoint scelto può dipendere dal meccanismo d’azione del tipo di intervento fatto, perché mentre il tempo di rebound della viremia può essere appropriato per interventi che colpiscono il reservoir, il set point virale serve certamente sia negli studi di immunoterapia, in cui lo stimolo della risposta immune HIV-specifica è fornito dal ritorno della viremia, sia negli studi di terapia genica, che si basano sulla “protezione” dei CD4 non infetti, che si espandono nel momento in cui i CD4 infetti muoiono:

    • Immagine

      Immagine


    Immagine come proteggere i partecipanti alle sperimentazioni durante un’interruzione di trattamento, che deve comunque essere il più breve possibile (oltre al frequente monitoraggio di viremia e CD4, si ritiene che debbano essere tenute in considerazioni la farmacocinetica e l’emivita degli ARV prima della sospensione per minimizzare il rischio di sviluppare resistenze);

    Immagine quali sono i criteri per definire il successo terapeutico dopo l’interruzione del trattamento (si ritiene che l’HIV RNA nel plasma debba mantenersi al di sotto delle 200 copie/ml, ma non è chiaro il significato clinico di questa soglia in persone non in ART; inoltre, la progressione della malattia può essere ancora possibile);

    Immagine qual è il massimo declino dei CD4 che può essere consentito (indicativamente: il 25% o un crollo dei CD4 al di sotto di 350 cellule/mm3).



Quali [divbox]marker[/divbox] devono essere presi in considerazione come predittori dei risultati dell’interruzione terapeutica?

Al momento, non esistono dei marker validati per predire il rebound virale dopo la sospensione della ART e la validità di ciascun marker può dipendere dalla specifica strategia terapeutica studiata. Quel che è certo è che servono più dati, che bisogna selezionare alcuni test, standardizzare delle procedure, validare i test e fare tutto questo in un numero di pazienti che ancora non si sa quanto debba essere alto.

Probabilmente, inoltre, serviranno sia marker virologici, sia marker immunologici.


Passiamo alla proposta di [divbox]definizione di “cura”[/divbox] avanzata dal gruppo di lavoro di Mellors (che comprendeva scienziati del calibro di Michael Lederman e il più lucido fra gli attivisti americani che si occupano di ricerca, Richard Jefferys). Il processo per arrivare a definire un concetto, che pare semplice ed è invece sfuggente quanto pochi altri, è un poco complesso. Cercherò di seguirlo passo passo.

Nei trial clinici di fase I/II si propone di fissare un obiettivo virologico basato sui dati che verranno raccolti e, sulla base di questi dati, verranno a loro volta fissati i criteri per impostare i trial di fase IIb/III.
Nasce dunque il concetto di VSOT
weeks = “Virologic Suppression Off Therapy” (“Soppressione Virologica Senza Terapia”) seguito da un numero che indica la durata della soppressione in settimane.

Il concetto di VSOT può essere declinato in modi diversi:

  • Immagine VSLLDOTweeks - per includere il metodo (limite di rilevabilità del test) usato per definire la soppressione virologica;
    Immagine pVSOT (VSOT parziale) – per indicare che la soppressione della viremia è al di sotto di 200 copie/ml;
    Immagine cVSOT (VSOT completa) – per indicare che l’RNA virale nel plasma è irrilevabile con i test più sensibili.
Il problema è che non è detto che la Soppressione Virologica Senza Terapia sia sufficiente a definire la cura. Bisognerebbe infatti includere il numero dei CD4 e lo stato di immunoattivazione/infiammazione:
  • Immagine la preservazione del numero dei CD4 pone a sua volta un problema, perché non è chiaro quanto declino si possa consentire prima di dover riprendere la terapia (non più del 25% della soglia di partenza o una discesa sotto le 350 cellule/mm3);
    Immagine inoltre, non è chiaro se l’eradicazione comporterà una ripresa immune completa e una normalizzazione degli indici di attivazione e di infiammazione. In particolare, diverse strategie di eradicazione possono influenzare in modo diverso la ripresa immune e l’attivazione. È dunque fondamentale essere consapevoli dei possibili trade off fra VSOT e immunoattivazione/infiammazione persistente o aumentata;
    Immagine nel caso dei neonati o dei bambini piccoli potrebbe essere necessario stabilire come obiettivi dei criteri non-virologici.
Quanto dovrebbe durare il periodo di remissione?
  • Immagine Idealmente, tutta la vita: VSOT∞ (ma questo obiettivo non è pratico in caso di trial clinici);
    Immagine VSOT
    52 (cioè un anno) può essere un buon punto di partenza, specialmente dalla prospettiva del controllo virologico. Infatti, si è visto che gli elite controller con misure successive di HIV RNA <50-75 copie/ml durante almeno un anno di follow up avevano risultati clinici simili a quelli seguiti per più tempo. Uno dei due Boston Patients, dopo la sospensione della ART, ha mantenuto la soppressione virologica per 32 settimane e questo fornisce un’utile pietra di paragone. D’altra parte, l’importanza di intervalli più corti di un anno (per esempio 6 mesi) non è chiara.
Si ritiene che non servano diverse definizioni di cura per diverse popolazioni (persone in fase acuta, in fase cronica, neonati), anche se i CD4 e alcuni altri marker possono avere un valore diverso per i bambini e per gli adulti.
Analogamente, identificare un meccanismo di remissione per un determinato intervento curativo potrebbe essere utile, ma non è necessario nel momento in cui si dimostra che l’intervento è sicuro e efficace.
Indipendentemente dal meccanismo di remissione, invece, sarà molto importante fissare dei follow up molto lunghi per i pazienti che partecipano a questi trial.


Alla luce di tutta la discussione precedente, i problemi che ha affrontato il gruppo di lavoro dedicato alla definizione del consenso informato e dei criteri di comunicazione delle caratteristiche dei trial da utilizzare per spiegare ai pazienti rischi e benefici di queste sperimentazioni hanno riguardato:

  • Immagine il linguaggio da adottare per parlare di “cura”, in modo da creare un equilibrio fra le legittime aspirazioni a guarire di chi partecipa ai trial e la realtà di queste prime sperimentazioni su esseri umani, che di benefici individuali ne avranno probabilmente pochi. Questo comporta la necessità di minimizzare la probabilità di benefici diretti con frasi tipo “non rientra fra gli obiettivi dello studio”, “è molto improbabile”, etc.;
    Immagine la necessità di giustificare i possibili rischi (anche quelli incerti, ignoti e quindi impossibili da definire a priori) a persone che, dati gli attuali standard terapeutici, stanno andando benissimo con la ART:

    Immagine



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Re: ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZI

Messaggio da uffa2 » mercoledì 25 giugno 2014, 11:54

Questo è un argomento noiosissimo, e infatti vedo che non suscita grande entusiasmo, eppure è fondamentale: prima o poi bisogna definire il “recinto” nel quale ci si muove, quali sono gli endpoint delle ricerche, come si valutano i risultati, i margini di sicurezza…
In oncologia, dove si va avanti a strappare giorni di sopravvivenza con le unghie, il caos è tale che ogni ricercatore sceglie abbastanza liberamente se il suo obiettivo è la sopravvivenza tout court (OS), quella senza progressione di malattia (PFS) quella libera da malattia (DFS), il tempo alla progressione o altro: la realtà è che lì ogni binario finisce contro i respingenti della morte e, alla fine, molto dipende dal “punto di vista” (gli obiettivi) di chi conduce la ricerca su cosa sia realmente importante (in una malattia dove magari la morte, oltre che scontata è anche a breve termine, non è detto che il guadagno in sopravvivenza sia rilevante, quando il suo significato è di aggiungere pochi giorni alla vita, magari contano di più le condizioni in cui si arriva al decesso).
Qui ci si sta avventurando in una terra vergine, e si tratta di capire cosa si sta cercando, e quale significato anche predittivo possano avere i numeri che già oggi abbiamo e che usiamo solo per valutare l’efficacia della terapia nel controllare il virus, e che domani dovrebbero invece servire per dire “ce l’ha fatta” o no a liberarsi del virus o a controllarlo senza farmaci.

Una cosa è rassicurante: il solo fatto che si ponga oggi il problema di “stabilire delle regole per la discussione” è un successo, perché vuol dire che si crede che la fattibilità prima o poi di quest’obiettivo esista.


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Re: ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZI

Messaggio da Dora » mercoledì 25 giugno 2014, 12:08

uffa2 ha scritto:Questo è un argomento noiosissimo, e infatti vedo che non suscita grande entusiasmo, eppure è fondamentale: prima o poi bisogna definire il “recinto” nel quale ci si muove, quali sono gli endpoint delle ricerche, come si valutano i risultati, i margini di sicurezza…
In oncologia, dove si va avanti a strappare giorni di sopravvivenza con le unghie, il caos è tale che ogni ricercatore sceglie abbastanza liberamente se il suo obiettivo è la sopravvivenza tout court (OS), quella senza progressione di malattia (PFS) quella libera da malattia (DFS), il tempo alla progressione o altro: la realtà è che lì ogni binario finisce contro i respingenti della morte e, alla fine, molto dipende dal “punto di vista” (gli obiettivi) di chi conduce la ricerca su cosa sia realmente importante (in una malattia dove magari la morte, oltre che scontata è anche a breve termine, non è detto che il guadagno in sopravvivenza sia rilevante, quando il suo significato è di aggiungere pochi giorni alla vita, magari contano di più le condizioni in cui si arriva al decesso).
Qui ci si sta avventurando in una terra vergine, e si tratta di capire cosa si sta cercando, e quale significato anche predittivo possano avere i numeri che già oggi abbiamo e che usiamo solo per valutare l’efficacia della terapia nel controllare il virus, e che domani dovrebbero invece servire per dire “ce l’ha fatta” o no a liberarsi del virus o a controllarlo senza farmaci.

Una cosa è rassicurante: il solo fatto che si ponga oggi il problema di “stabilire delle regole per la discussione” è un successo, perché vuol dire che si crede che la fattibilità prima o poi di quest’obiettivo esista.
Sì, che l'obiettivo esista e abbia senso porselo è certo rassicurante. E che ci siano i maggiori scienziati e i più intelligenti attivisti a collaborare insieme, anche questo è rassicurante. Così come rassicurante è pensare che le persone che vengono arruolate in questo tipo di trial non siano dei disperati per i quali "tutto va bene", ma persone sostanzialmente in buona salute che vengono considerate alla stregua di "volontari sani". Qui, però, è anche il punto dolente dei trial di ricerca di una cura: in modo del tutto paradossale, la disponibilità di antiretrovirali che funzionano molto bene ha alzato lo standard di eticità di queste sperimentazioni a livelli altissimi. E questo complica non poco le cose.
In gioco qui non ci sono - evidentemente - masturbazioni mentali di persone che non hanno niente di meglio da fare, ma problemi etici molto seri, la cui soluzione dipende dal tipo di risposte scientifiche che si riusciranno a dare alle domande ancora aperte, che spero di essere riuscita a rendere chiare.
Io credo che sia fondamentale che questi aspetti vengano discussi sia fra gli scienziati fra loro, sia fra scienziati e community, proprio perché non si perda mai di vista il fatto che chi si presta come volontario in queste sperimentazioni lo fa per altruismo e non per trarne un beneficio personale. Quindi la minimizzazione dei rischi è una priorità, che deve passare davanti a qualsiasi altra considerazione.



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Re: ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZI

Messaggio da alfaa » mercoledì 25 giugno 2014, 14:37

Non è detto che il volontario ne tragga un beneficio pero perche lo escludi a priori? Magari si trova qualcosa che dopo essere stata approvata , userebbe pure il volontario, seppur dopo 15-20 anni dalla sua partecipazione al trial, no?
Oppure questa eventualità non l 'avevi esclusa e ho capito io male?



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Re: ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZI

Messaggio da uffa2 » mercoledì 25 giugno 2014, 15:13

Alfa, il senso è che uno non è che partecipa a un trial di questo tipo per avere un ritorno immediato, lo fa per “amore della scienza”.


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Re: ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZI

Messaggio da Dora » mercoledì 25 giugno 2014, 15:33

alfaa ha scritto:Non è detto che il volontario ne tragga un beneficio pero perche lo escludi a priori?
Nessuno esclude a priori questa possibilità, ma è abbastanza remota, perché questi trial sono dei tentativi iniziali in cui ancora troppi dettagli non sono chiari, per tutte le ragioni che ho cercato di spiegarti fra ieri e oggi. Quindi è necessario essere onesti con i pazienti disposti a entrare in queste sperimentazioni: partecipano per altruismo e corrono dei rischi che non sono del tutto quantificabili. Se poi dovessero anche averne qualche beneficio, tanto di guadagnato. Ma è meglio che non se lo aspettino.

Fra l'altro, non pensare che siano poche le persone disposte a correre dei rischi per aiutare i propri simili e fare aumentare le conoscenze. Da un'indagine fatta un paio d'anni fa, è emerso che l'altruismo è altissimo:

Immagine

A chi volesse approfondire le questioni etiche connesse alla ricerca di una cura suggerisco qualche lettura (tutto in inglese, mi spiace - ma sapete che parlare di cura dell'HIV in Italia interessa a pochi):



alfaa
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Re: ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZI

Messaggio da alfaa » mercoledì 25 giugno 2014, 18:32

Per trial intendi le sperimentazioni iniziali , quelle che se tutto va bene ci vogliono 2-3 anni perchè inizi la fase uno .
Ma se fosse remoto per questi volontari partecipare ai benefici( volontari che magari hanno solo 30 anni) allora lo stesso varrebbe per tutti noi? Ma un trial se va bene non ci mette 10-15 anni per andare in porto? ( se va in porto)

O forse il trial non è quello di cui parlavo sopra?

Cioe : se un trial dura( qualora va bene )10-15-20 anni e non 60, perchè trovi molto remoto che i volontari possano beneficiare dei risultati ottenuti? Questo non ho capito.
Il fatto che sono consapevoli che non è detto che beneficeranno di qualcosa, ovviamente è palese perchè puo essere che il trial fallisce o fallisce alla fase 2 tanto x dire.

Cioe in definitiva: come mai sei " pessimista" circa il fatto che le persone di questa generazione possano vedere dei risultsti in tal senso? O forse ho frainteso io le tue parole



uffa2
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Re: ERADICAZIONE, CURA FUNZIONALE, PTC, ELITE: SOLO DEFINIZI

Messaggio da uffa2 » mercoledì 25 giugno 2014, 18:57

Alfa: con tutto l'ottimismo di questa terra, se lo sviluppo di un farmaco eradicante di successo iniziasse oggi, a meno di dati incredibili durerebbe appunto almeno 10 anni.
Ora, posto che un tale farmaco proprio non si vede, e quindi il countdown proprio non è prossimo, ti rendi conto del fatto che chi oggi partecipa a una sperimentazione sta veramente facendo nulla più che un'opera buona: al più sta contribuendo a stabilire che una molecola non è letale e che *forse* potrebbe essere utile, ma ci vorranno anni per essere sicuri di tutto, e se mai quella molecola diventasse un farmaco nulla assicura che sarà utile in quel paziente dopo così tanto tempo

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