R.Jefferys, T.Horn_Sistema Immunitario, HIV e Invecchiamento

Ricerca scientifica finalizzata all'eradicazione o al controllo dell'infezione.
Dora
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R.Jefferys, T.Horn_Sistema Immunitario, HIV e Invecchiamento

Messaggio da Dora » venerdì 7 giugno 2013, 15:00

Richard Jefferys e Tim Horn hanno scritto per TAG un report, in cui descrivono la letteratura ad oggi disponibile sulle relazioni fra sistema immunitario e invecchiamento nella malattia da HIV.
È un testo molto bello, chiaro e dettagliato, che presenta una amplissima bibliografia. Ho quindi ritenuto utile tradurlo per il forum e dedicargli un thread a sé, anche se in diversi altri thread abbiamo discusso i problemi legati all'attivazione immunitaria e all'infiammazione croniche (purtroppo molte delle discussioni sono rimaste nell'archivio del vecchio forum, ma in questo si possono vedere, solo a titolo di esempio: Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronica?; [CROI 2012] Migliorare il GUT: PROBIOTICI, IL-7, HAART; [CROI 2013]Hatano-Deeks_ART, infiammazione, intensificazione; Idrossiclorochina contro l'immunoattivazione? NO GRAZIE!)

La traduzione italiana completa di bibliografia può essere letta più comodamente in un PDF, che può essere scaricato qui, con il titolo: SISTEMA IMMUNITARIO, HIV E INVECCHIAMENTO_TAG.
Il testo in italiano è molto lungo, quindi ho deciso di spezzarlo in due post.

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Sistema Immunitario, HIV e Invecchiamento


Introduzione

Una decina di anni fa, era quasi inconcepibile che la questione dell’invecchiare con l’infezione da HIV emergesse come una preoccupazione importante. Ma ora è divenuto chiaro che la terapia antiretrovirale combinata (ART) è in grado di sopprimere la replicazione del virus per molti anni – verosimilmente per tutta la vita – nella maggior parte delle persone che hanno accesso ai farmaci e le infezioni opportunistiche, che un tempo erano la prima causa di malattia, là dove il trattamento è disponibile sono in gran parte scomparse. Morbilità e mortalità per infezione da HIV sono crollate e la sopravvivenza delle persone HIV-positive si approssima sempre più a quella dei loro pari HIV-negativi. Con lo spettro dell’AIDS che è stato finalmente scacciato dall’orizzonte più prossimo, l’attenzione si è rivolta ai problemi di salute che si possono incontrare lungo la strada.

Quelle più incombenti sono le patologie tipicamente associate all’invecchiamento. Fra queste, problemi cardiovascolari, renali ed epatici; perdita ossea e aumentato rischio di fratture; fragilità; deterioramento cognitivo; cancro. Si stanno accumulando prove che il rischio di questi disturbi è elevato nelle persone HIV-positive e, in certi casi, possono verificarsi a un’età mediamente più giovane rispetto a quella in cui si osservano tipicamente in popolazioni HIV-negative simili. Poiché la proporzione di persone con HIV più anziane sta crescendo (vedere figura 1), si pone la pressante necessità di capire come una vasta gamma di fattori possano contribuire a questo fenomeno; e questi fattori includono l’infiammazione, la disregolazione immunitaria, la politerapia, le tossicità dei farmaci nel lungo periodo, le coinfezioni e comorbilità che hanno una prevalenza sproporzionata fra le persone con HIV, quali l’epatite B e C, i disturbi connessi all’uso corrente o pregresso di sostanze, lo stress e la depressione.

È importante sottolineare che l’aumento del rischio di patologie associate all’età riferito nelle persone con HIV (confrontato con le loro controparti HIV-negative) è relativamente piccolo. Inoltre, sussistono delle incongruenze fra gli studi e ci sono discussioni ad oggi non risolte su fino a che punto l’infezione da HIV sia un fattore di rischio indipendente per patologie specifiche.

Pertanto, mentre c’è ragione di allarme e preoccupazione, non c’è ragione di panico ed è verosimile che molte persone HIV-positive non dovranno affrontare un rischio supplementare significativo di problemi legati all’invecchiamento. Come raccomandazione generale, le persone HIV-positive dovrebbero considerare i fattori legati allo stile di vita, che oggi si sa che possono migliorare lo stato di salute quando si raggiunge la vecchiaia; e cioè: fare esercizio quotidiano, seguire una dieta sana, mantenere pressione sanguigna e colesterolo a dei livelli bassi, evitare l’abuso di sostanze e gli eccessivi aumenti di grasso.

L’obiettivo di questo breve report è di sintetizzare la conoscenza scientifica attualmente disponibile riguardo alle connessioni immunologiche fra HIV e invecchiamento e di offrire un’introduzione ad alcune delle questioni non risolte che vengono affrontate – o devono essere affrontate – dalla ricerca.


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Figura 1. La distribuzione per età delle persone che vivono con l’HIV negli Stati Uniti, basata sulla percentuale di individui in ciascuna categoria d’età nel 2011 confrontata con il 2010 (dati provenienti da aree con segnalazioni confidenziali basate sul nome). L’aumento della popolazione di individui più anziani che vivono con l’HIV è un fenomeno globale. Si stima che nell’Africa sub-sahariana ci siano 3 milioni di persone con HIV che hanno 50 e più anni, più del 13% del totale dei casi di HIV nella regione. Dati recenti dello Swiss HIV Cohort Study mostrano in Europa tendenze simili.


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Invecchiamento e patogenesi dell’HIV

Uno dei primi report che associavano l’età con la prognosi dell’infezione da HIV fu pubblicato nel 1987: in una coorte di emofiliaci, l’età più avanzata era associata in modo significativo ad una più rapida progressione verso l’AIDS. Nei due decenni successivi, questa scoperta è stata più volte confermata in tutte le popolazioni.
Si è anche rapidamente dimostrato che l’età aveva un impatto indipendente sul numero dei linfociti T CD4. Sono inoltre stati notati dei parallelismi fra le manifestazioni cliniche dell’AIDS e l’invecchiamento – quali il deterioramento cognitivo, l’atrofia muscolare e la fragilità – e ciò ha spinto alcuni ricercatori ad ipotizzare che la base comune potesse essere immunologica. Tuttavia, a quei tempi, c’erano pochi dati sui cambiamenti immunologici che si verificano durante l’invecchiamento naturale e sui loro rapporti con la salute.

Negli ultimi anni, ha iniziato ad emergere un quadro più chiaro del ruolo del sistema immunitario nell’invecchiamento. A grandi linee, le evidenze suggeriscono che si verifichi un logoramento graduale delle risorse del sistema immunitario, causato in parte dalle molte e diverse infezioni cui un individuo è esposto durante la vita, con le infezioni croniche – quei patogeni che sono controllati, ma non rimossi dal corpo – che svolgono un ruolo particolarmente importante. L’esempio chiave è il citomegalovirus (CMV), che è stato regolarmente associato con disfunzione immunitaria e mortalità (con follow-up da più di due fino a sei anni) in persone molto anziane. Ed è stato ipotizzato anche un possibile contributo dell’infezione da Epstein-Barr virus (EBV).

Poiché in età avanzata il sistema immunitario diventa meno competente, pare anche che debba lavorare di più e che ciò porti a uno stato di infiammazione cronica, che è stato descritto come “inflamm-aging”. Un progresso particolarmente importante in questo campo di ricerca è stato l’identificazione di un gruppo di fattori, che erano fortemente predittivi di mortalità più precoce in una coorte svedese di persone anziane (> 85 anni), noti come “profilo di rischio immunologico” o “fenotipo di rischio immunologico” (IRP – vedere box 1). La ricerca sta adesso indagando se l’IRP si applichi anche ad altre popolazioni, comprese quelle di 60 e più anni.

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Questi progressi nella ricerca sull’invecchiamento hanno messo in evidenza numerosi sorprendenti parallelismi con la patogenesi dell’infezione da HIV (vedere box 1), ed offrono una nuova lente attraverso la quale guardare precedenti risultati della ricerca. La dimostrazione della pressione cronica esercitata sul sistema immunitario dalla presenza dell’HIV è stata documentata prima ancora che il virus fosse identificato; i primi report di casi di AIDS includevano dati che mostravano livelli elevati di attivazione dei linfociti T, misurati mediante il marker di attivazione CD38 (che allora era noto come T10). Una ricercatrice della University of California, Los Angeles, Janis Giorgi, ha anche dimostrato che l’espressione del CD38 sui CD8 era un forte predittore della velocità di progressione della malattia, una scoperta seminale che è stata ripetutamente confermata in successivi studi indipendenti. È anche stato dimostrato che gli alti livelli di attivazione dei linfociti T in persone con HIV non trattato si accompagnano ad aumenti nelle citochine infiammatorie, come l’IL-6, il TNF-α e l’interferone alfa. Quindi, mentre lo stadio finale dell’infezione da HIV è caratterizzato da deficienza immunitaria, è preceduto da una graduale erosione delle risorse del sistema immunitario causata da attivazione cronica, un processo che può avere un parallelo nel ruolo, da poco descritto, del CMV nell’aggravare il declino immunitario in persone HIV-negative molto anziane.

Dal momento che l’impatto dell’infezione da HIV sul sistema immunitario rispecchia per molti aspetti quello dell’invecchiamento, è possibile che delle manifestazioni che rievocano l’invecchiamento accelerato nelle persone HIV-positive siano totalmente dipendenti dal virus. Tuttavia, ci sono molti altri fattori che possono contribuire. I farmaci antiretrovirali hanno una gamma ben descritta di tossicità che potrebbero plausibilmente svolgere un ruolo, per esempio il danno ai mitocondri, che nelle cellule producono energia (un possibile effetto collaterale degli inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa, NRTI), l’aumento dei livelli di colesterolo e trigliceridi (causato da alcuni inibitori della proteasi), lo sviluppo di obesità addominale centrale (che può essere fonte di IL-6 e altre citochine infiammatorie) e la resistenza all’insulina (cui possono contribuire sia gli NRTI, sia gli inibitori della proteasi). Inoltre, esistono fattori di rischio che possono avere una maggiore prevalenza nelle persone HIV-positive, come i disturbi connessi all’uso corrente o pregresso di sostanze, il fumo, lo stress, la depressione e i disturbi del sonno.

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La ricerca sulla senescenza immunitaria nell’HIV

Senescenza immunitaria è un termine generale usato per descrivere il profilo immunologico visto nelle persone più anziane. La parola senescente si applica anche alle cellule del sistema immunitario che mostrano segni di disfunzione legata all’età. Anche se la relazione fra immunosenescenza e salute è emersa solo relativamente di recente (e rimane per certi versi controversa), è da molti anni che i ricercatori stanno indagando questo fenomeno nelle persone con HIV.
A metà 1990, Rita Effros, della University of California, Los Angeles, fu la prima a portare le prove che i CD8 stavano raggiungendo uno stato noto come senescenza replicativa nelle persone con HIV. Senescenza replicativa significa che le cellule si sono divise così tante volte che non si dividono più, divenendo così disfunzionali e incapaci di svolgere il loro importante dovere di sorveglianza ed eliminazione delle cellule infettate da patogeni (è questo ruolo che ha fatto guadagnare ai CD8 il nome con cui sono comunemente conosciuti: “linfociti T killer”).

Le prove della senescenza derivavano dalla valutazione della lunghezza dei telomeri nei CD8. I telomeri sono delle sorte di cappucci specializzati che proteggono le estremità di ciascun cromosoma ed evitano la degradazione del DNA quando i cromosomi sono copiati durante la divisione della cellula (comunemente, i telomeri vengono paragonati ai puntali, i piccoli cappucci che proteggono le stringhe delle scarpe per evitare che si sfilaccino). Nel corso di molte divisioni cellulari, i telomeri si accorciano, e l’articolo della Effros ha segnalato che i telomeri nei CD8 prelevati a persone con HIV (in era pre-HAART) avevano lunghezza simile a quella dei CD8 prelevati a persone di 100 e più anni.

Effros ha anche dimostrato che la perdita dell’espressione di una molecola sulla superficie della cellula, il CD28, serve come marker della senescenza replicativa dei CD8. Queste scoperte concordavano con molti studi indipendenti, che avevano documentato l’accumularsi di CD8 privi di CD28 (CD28-negativi) nell’infezione da HIV, sia in adulti, sia in bambini. La presenza di queste cellule è vista con preoccupazione poiché, oltre ad essere meno capaci di proliferare, hanno la tendenza a produrre alti livelli di citochine infiammatorie.

Un altro parallelismo chiave fra infezione da HIV e invecchiamento naturale riguarda la perdita delle cellule immunitarie naive. Le cellule principali del sistema immunitario adattivo – i linfociti T CD4 e CD8 e i linfociti B – si dividono nel corpo ciascuna in due grandi gruppi: le cellule naive, che non hanno ancora incontrato un antigene cui rispondere, e le cellule memoria, che discendono da cellule naive che in qualche momento del passato hanno incontrato un antigene e gli hanno risposto. Quando le persone invecchiano, il numero delle cellule naive diminuisce e le cellule memoria che hanno risposto a molti diversi patogeni incontrati durante la vita si accumulano. La ricerca ha rivelato una molto più rapida deplezione dei CD4, CD8 e linfociti B naive nelle persone con HIV rispetto ai controlli HIV-negativi. Più di recente, è stato sostenuto che il declino nel numero delle cellule naive costituisce un parallelismo ancora più stretto fra HIV e invecchiamento rispetto all’accumularsi di CD8 senescenti.

Esistono diversi meccanismi attraverso i quali l’HIV causa questa accelerazione nella perdita della naïveté immunologica. La replicazione continua del virus attiva in modo persistente le cellule naive, inducendole a differenziarsi in cellule memoria (e quindi sottraendole al gruppo delle cellule naive). L’attivazione immunitaria cronica si associa con una sorta di danno cicatriziale del tessuto dei linfonodi chiamato fibrosi, che si è visto che limita la produzione di fattori necessari al mantenimento del numero delle cellule naive (la fibrosi del tessuto linfatico non è stata ben studiata nelle persone HIV-negative, ma le prove a disposizione fanno pensare che sia più prevalente in chi ha più di 60 anni). Il virus contribuisce anche all’esaurimento delle cellule staminali ematopoietiche (HSC), che danno vita ai linfociti T e B naive in fabbriche di cellule localizzate nel midollo osseo. I livelli di HSC circolanti nelle persone con HIV somigliano a quelli delle persone HIV-negative di più di 75 anni.

Dopo che i linfociti T sono stati prodotti nel midollo, si spostano nel timo (di qui la “T” nel loro nome), un organo collocato dietro lo sterno, che agisce sostanzialmente come un campo di addestramento. La produzione di linfociti T naive da parte del timo diminuisce rapidamente dopo l’infanzia mediante un processo naturale chiamato involuzione timica, e gradualmente rallenta fino a diventare un gocciolio durante la vecchiaia. L’infezione da HIV aggrava questo effetto dell’età, indebolendo la funzionalità del timo fin dai primi stadi dell’infezione. La diminuzione di cellule naive e l’aumento di cellule memoria specifiche per le infezioni croniche (che si verificano sia durante l’invecchiamento, sia nell’infezione da HIV) portano ad avere un repertorio di linfociti T meno diversificato (per diversificato si intende con linfociti T in grado di rispondere a molti antigeni diversi).

Ma ad essere colpite non sono soltanto le cellule del sistema immunitario adattivo. Alcuni studi hanno iniziato a guardare alle componenti del sistema immunitario innato, scoprendo che i monociti negli uomini con HIV di 45 anni o meno sono simili a quelli di persone HIV-negative di più di 65 anni, hanno una funzionalità ridotta e telomeri accorciati.

Due altre caratteristiche che ora sappiamo essere associate all’invecchiamento immunologico sono state documentate nelle persone con HIV, inizialmente, nei primi casi pubblicati, in persone con AIDS, prima di essere approfonditamente documentate in anziani HIV-negativi: l’inversione del rapporto CD4:CD8 (normalmente sul 2:1, ma tipicamente < 1 nell’infezione da HIV non trattata), e la perdita della funzionalità dei CD4, in particolare della capacità dei linfociti T di proliferare in risposta a una stimolazione e di produrre la citochina interleuchina-2 (IL-2).

Il peggioramento dell’invecchiamento immunologico a causa dell’infezione da HIV offre una possibile spiegazione dell’associazione fra età e rischio di progressione della malattia descritta prima. Le persone più anziane partono con un sistema immunitario che è già stato consumato nel corso del tempo, così l’HIV aggrava i deficit associati all’età che sono già presenti.


La senescenza immunitaria nell’era di un efficace trattamento dell’HIV

La soppressione della replicazione dell’HIV mediante la ART porta tipicamente a un declino dell’attivazione immunitaria, una ripresa del numero dei CD4 del sangue periferico e una ricostituzione delle funzioni immunitarie chiave, quali le risposte proliferative ai patogeni opportunisti. Tuttavia, alcuni aspetti della immunosenescenza possono persistere: la ripresa dei CD4 naive è lenta (possono volerci anni) e dipende sia dall'età, sia dal numero dei CD4 al momento di inizio della terapia. I CD8 senescenti (e, per quanto non si accumulino nella stessa misura, anche i CD4) sembrano riluttanti a svanire, anche se i dati disponibili sono ancora molto pochi e servono degli studi più a lungo termine. I livelli di infiammazione arretrano parallelamente all’attivazione immunitaria, ma in genere rimangono al di sopra di quelli riscontrati in persone HIV-negative simili. Mettendo in evidenza l’importanza dell’età, i parametri immunitari dei bambini in ART da tempo si avvicinano molto di più a quelli delle loro controparti HIV-negative, benché il numero dei CD8 attivati e totali rimanga leggermente elevato, così come la proporzione di CD4 memoria.

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Attualmente, alcune delle prove più forti che l’immunosenescenza può colpire la salute delle persone con HIV sono indirette: l’età più avanzata e un assortimento di marker di senescenza sono regolarmente associati a scarsa ripresa dei CD4 nonostante la soppressione dell’HIV; in questo caso, si parla di risposta discordante o di non-risposta immunologica. Molti studi hanno dimostrato che le persone in questa situazione presentano un rischio di malattia più elevato rispetto a individui che hanno aumenti dei CD4 più consistenti. Queste scoperte equivalgono alla valutazione dell’aspettativa di vita basata sulle popolazioni e confrontando le persone con HIV in terapia e le loro controparti HIV-negative: un numero di CD4 del sangue periferico > 500/mm3 si associa a un’aspettativa di vita simile, mentre un numero di CD4 < 500/mm3 si correla con un aumentato rischio di morte. Per esempio, una analisi di 3.280 partecipanti HIV-positivi a due grandi trial clinici, tutti in terapia e con viremie soppresse, ha trovato che ci sono stati 28 decessi fra le persone con CD4 compresi fra 350 e 499/mm3, mentre 16 decessi sarebbero stati attesi in una popolazione HIV-negativa comparabile. Nel più ampio gruppo di partecipanti con CD4 superiori a 500/mm3, il numero delle morti (34) ha collimato esattamente con la mortalità attesa dei confronti HIV-negativi.

In linea con questi dati, uno studio recente esteso per un periodo molto lungo sugli aumenti dei CD4 in persone in ART seguite per 12 anni ha suggerito che la ripresa più lenta nelle persone con più di 50 anni sia una ragione sufficiente per incorporare l’attenzione all’età nelle linee guida per il trattamento dell’HIV. Nel marzo 2012, le Guidelines for the Use of Antiretroviral Agents in HIV-1 Infected Adults and Adolescents sono state aggiornate in modo da includere una nuova sezione sulla cura della persone più anziane con HIV, in cui si raccomanda esplicitamente l’inizio della ART in persone di 50 e più anni senza riguardo per il numero dei CD4, “perché il rischio di complicanze non-AIDS correlate può aumentare e la risposta immunologica alla ART può essere ridotta nei pazienti con infezione da HIV più anziani”. Le linee guida, tuttavia, notano che questa è una raccomandazione limitata, basata sull’opinione di esperti tenendo conto della letteratura corrente su invecchiamento e infezione da HIV. Un trial randomizzato e controllato denominato START (Strategic Timing of Antiretroviral Treatment), attualmente in corso, sta valutando l’inizio immediato della ART rispetto a un inizio differito in un’ampia popolazione che spazia in età diverse; i risultati di questo trial dovrebbero fornire prove più chiare sui rischi e i benefici di un inizio immediato della ART nelle persone più anziane con HIV.

Circa le associazioni più dirette fra immunosenescenza e salute nelle persone con HIV, i dati stanno iniziando a comparire solo adesso. Il gruppo di ricerca di Rita Effros ha segnalato che proporzioni più alte di CD8 CD28-negativi erano associate a una più rapida progressione della malattia in uomini arruolati nel Multicenter AIDS Cohort Study (MACS), ma si trattava di un’analisi retrospettiva, che riguardava campioni conservati, mentre servono degli studi prospettici. Uno studio che coinvolgeva 115 donne di 40 e più anni nel Women’s Interagency HIV Study (WIHS) ha trovato una associazione significativa fra la proporzione di CD8 sia attivati, sia senescenti e la presenza di lesioni dell’arteria carotidea, un segnale di disturbo cardiovascolare. Di nuovo, tuttavia, si è trattato di un’indagine retrospettiva su campioni raccolti in un singolo momento – riferito a un’analisi trasversale – ed è necessaria una ricerca prospettica per avere una comprensione più chiara delle associazioni osservate. Ciò nondimeno, gli autori dello studio affermano “prese tutte insieme, queste associazioni sono coerenti con un modello in cui l’infezione da HIV comporta attivazione immunitaria, invecchiamento immunologico accelerato e insorgenza prematura di CVD [disturbo cardiovascolare]”. Inoltre, essi segnalano che nelle persone HIV-negative si è dimostrato che il CMV contribuisce al disturbo cardiovascolare seguendo meccanismi simili.

Un altro studio, questa volta su uomini, ha trovato che diversi parametri di immunosenescenza – compresi più bassi livelli di CD4 e CD8 naive e più alte proporzioni di linfociti T CD28-negativi – sono legati allo sviluppo del sarcoma di Kaposi (KS), nonostante la soppressione dell’HIV grazie alla terapia antiretrovirale. Il KS in questi casi assomiglia alla forma “classica”, in genere benigna, descritta in anziani HIV-negativi, di contro alla forma aggressiva che si è vista nell’AIDS. Mentre serve più ricerca, questi risultati suggeriscono che l’invecchiamento del sistema immunitario possa essere un fattore di rischio per il KS classico, condiviso da giovani con HIV e anziani HIV-negativi.



Dora
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Re: R.Jefferys, T.Horn_Sistema Immunitario, HIV e Invecchiam

Messaggio da Dora » venerdì 7 giugno 2013, 15:05

Infiammazione

Alcuni dei dati più importanti e autorevoli sulle relazioni fra infiammazione e salute nelle persone con HIV sono stati ricavati dal trial Strategies for Managment of Antiretroviral Therapy (SMART), che si proponeva di indagare se una ART intermittente, decisa in base ai CD4, poteva essere efficace quanto un trattamento continuato. Il trial aveva arruolato 5.472 persone, che erano state assegnate casualmente o a un braccio di “conservazione dei farmaci” (in cui la ART veniva iniziata quando il numero dei CD4 scendeva al di sotto dei 250/mm3 e interrotta quando superava i 350/mm3), o a un braccio di “soppressione virale”, in cui la ART veniva assunta in modo continuativo. L’età mediana dei partecipanti era 43 anni nel braccio di conservazione dei farmaci e 44 in quello di soppressione virale e il tempo mediano in ART prima dell’arruolamento era di sei anni per entrambi i gruppi.

I risultati dello SMART, che furono pubblicati dal New England Journal of Medicine nel 2006, furono inequivocabili: la ART intermittente era associata a un rischio doppio di malattia o di morte. I ricercatori, in qualche modo, furono sorpresi di vedere che poche (~8%) delle patologie che si presentarono erano infezioni opportunistiche; piuttosto, si videro soprattutto disturbi cardiovascolari, renali ed epatici – problemi più comunemente associati con l’invecchiamento (uno scienziato che si occupa di invecchiamento, Russell Tracy, ha sottolineato che questi risultati ricordano quelli documentati in un ampio studio su persone HIV-negative di più di 65 anni). Da notare che, oltre la media di 18 mesi di follow-up, questi eventi si sono verificati solo in una piccola minoranza dei partecipanti: ci sono stati 120 casi di malattie opportunistiche o di morte fra i 2.720 partecipanti nel braccio intermittente, di contro a 47 fra le 2.752 persone nel braccio continuo. Invece, di casi di disturbi cardiovascolari, renali ed epatici ce ne sono stati rispettivamente 65 e 39.

Per dare un fondamento a questi risultati, i ricercatori dello SMART hanno collaborato con Lewis Kuller, uno scienziato della University of Pennsylvania che ha decenni di esperienza nell’indagare i legami fra infiammazione e malattia, in particolare le malattie dell’invecchiamento. Kuller ha osservato una serie di marker del sangue legati all’infiammazione e ad anomalie nella coagulazione nei partecipanti allo SMART per stabilire se c’erano associazioni con i risultati del trial. I risultati dimostrarono che alti livelli di una sostanza coinvolta nella coagulazione, il D-dimero, e la citochina IL-6 erano fortemente predittivi di mortalità. L’interruzione della ART era legata a un aumento dei livelli di entrambi questi marker, che sono connessi anche al disturbo cardiovascolare e alla mortalità nelle persone HIV-negative. Una analisi successiva ha confrontato i livelli nei partecipanti allo SMART con quelli di una coorte affine di persone HIV-negative e ha dimostrato che erano in media significativamente più alti persino fra coloro che prendevano la ART.

Questi studi dimostrano che l’infiammazione predice cattive condizioni di salute nelle persone con HIV, coerentemente con la ricerca nelle popolazioni HIV-negative. Ma una differenza chiave è che l’effetto di piccoli aumenti dell’infiammazione è molto più forte nelle persone con HIV che in quelle HIV-negative. Inoltre, l’età media delle coorti con HIV in cui si è dimostrato che l’infiammazione è associata alla morbilità e mortalità è più bassa rispetto alle coorti che hanno fornito le basi della maggior parte della letteratura che esiste al di fuori del campo dell’HIV.


Implicazioni cliniche

Può sembrare che questo abbozzo dei parallelismi immunologici fra HIV e invecchiamento dipinga una quadro assai fosco, ma è chiaro che la prolungata soppressione del virus e l’incremento dei CD4 riducono notevolmente il rischio di conseguenze negative sulla salute, anche se in certi casi i marker immunitari che fanno pensare a un’età più avanzata persistono. Le domande chiave della ricerca sollevate dai dati immunologici sono se le persone con HIV in ART sperimentino un aumento nell’incidenza o nella prevalenza di malattie legate all’età in confronto a persone HIV-negative simili, e se questo rischio aumenti a un’età più giovane.
Rispondere a queste domande è difficile. Nonostante siano state fatte molte analisi da studi osservazionali di coorte, non è semplice definire che cosa sia un gruppo HIV-negativo di controllo comparabile, né è facile aggiustare i dati per i fattori confondenti e i bias di screening che sono presenti quando si confrontano pazienti con patologie croniche con persone della popolazione generale (un esempio immediato di possibile fattore confondente è che è più probabile che le persone con HIV fumino, quindi questo deve essere tenuto in considerazione, ma altri fattori possono essere più difficili da identificare). Tuttavia, questi studi di coorte hanno fornito dati importanti sulle manifestazioni cliniche dell’HIV e dell’invecchiamento.

Queste scoperte dovrebbero essere viste come un punto di partenza per impostare studi longitudinali e sperimentazioni cliniche, che sono necessari per valutare meglio questi marker biologici in quanto marker surrogati della progressione delle patologie legate all’età e dell’efficacia dei trattamenti e per capire l’utilità per le persone con HIV delle migliori pratiche di gestione delle comorbilità, che sono utilizzate (e sono state validate) per l’invecchiamento della popolazione in generale.
Fra i pochi dati caso-controllo ad oggi disponibili, esistono due studi europei che indicano tassi significativamente più alti di patologie singole e multiple legate all’età fra le persone con HIV in ART, rispetto a dei controlli HIV-negativi simili da un punto di vista demografico.

In uno studio retrospettivo trasversale italiano, che doveva valutare i dati relativi all’assistenza fra il 2002 e il 2009, i tassi di disturbo cardiovascolare, ipertensione, insufficienza renale, fratture ossee e diabete erano significativamente più alti fra le 2.854 persone con HIV in terapia rispetto agli 8.526 controlli corrispondenti per età, sesso e razza, scelti da un registro nazionale. Anche la prevalenza di disturbi multipli legati all’età era più alta fra persone con HIV più giovani – il tasso fra le persone con HIV fra 41 e 50 anni (9,0%) era simile a quello dei controlli fra 51 e 60 anni (6,6%). Il fatto che in questo studio le persone con HIV fossero da tempo in terapia era per certi versi inusuale, poiché poco più dei due terzi di questi pazienti erano giunti all’ospedale da cui era stata formata la coorte per problemi metabolici (lipodistrofia, per esempio), mentre 850 partecipanti frequentavano lo stesso ospedale per l’assistenza di routine. In ogni caso, un confronto fra questi due gruppi non ha rivelato differenze significative nei tassi di comorbilità.

In uno studio di coorte prospettico olandese, la prevalenza di almeno una patologia collegata all’età è stata del 74% fra 489 persone con HIV, rispetto al 60% dei 452 controlli corrispondenti per età. Un aspetto nuovo di questo studio riguardava l’uso di scansioni ad autofluorescenza per misurare gli AGE, i prodotti finali della glicazione avanzata, sulla pelle dei partecipanti alla coorte. I livelli degli AGE – proteine non funzionali e strutture lipidiche coinvolte in patologie legate all’età come l’Alzheimer, il disturbo cardiovascolare e l’infarto – erano più alti nelle persone con HIV e sono risultati associati in modo indipendente con una più alta prevalenza di malattie legate all’età. Tuttavia, data la natura trasversale di questi dati, non è stato possibile stabilire se i livelli aumentati di AGE erano una possibile causa o un effetto delle patologie legate all’età nei volontari HIV-positivi partecipanti allo studio.

Un’ampia quantità di dati caso-controllo sono stati prodotti dal Veterans Aging Cohort Study (VACS-8) su 8 città americane, che ha arruolato più di 7.000 persone con HIV e corrispondenti controlli HIV-negativi a partire dal 2002. Fra più di 150 analisi e sotto-studi pubblicati su questa coorte nella letteratura medica, il VACS-8 ha documentato l’aumento del rischio di disturbi cardiovascolari, di malattie polmonari, di diminuzione della funzionalità fisica, di fratture, di disturbi renali e di cancro nei veterani HIV-positivi rispetto ai controlli corrispondenti HIV-negativi. Tuttavia, una analisi che si chiedeva se attacchi cardiaci e insufficienza renale terminale si verificassero a un’età più giovane nei veterani HIV-positivi non ha rilevato alcun elemento di prova che sia così. L’analisi ha indagato anche i tumori non-AIDS e ha scoperto che questi possono verificarsi a un’età in media leggermente inferiore – la differenza era di sette mesi rispetto ai veterani HIV-negativi.

Anche se il VACS supera alcune limitazioni di altre analisi di coorte sull’età – compresi le piccole dimensioni del campione, l’assenza di campioni di confronto simili da un punto di vista demografico, la scarsa presenza di persone di colore e di adulti più anziani – ha però delle limitazioni tutte sue. Anzitutto, non seleziona i pazienti in prospettiva in base alle patologie legate all’età e non conduce revisioni dei diagrammi estese, ma invece si basa su codici diagnostici ICD-9 specifici, ma insensibili. In secondo luogo, la generalizzabilità dei dati del VACS può essere messa in discussione: i pazienti più giovani e le donne con HIV sono sottorappresentati nella coorte, e il tasso di mortalità è più alto che nelle altre coorti.

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Lo studio MACS si è soprattutto concentrato sulla prevalenza del fenotipo fragile – una sindrome descritta per la prima volta nel 2001 riguardo ad adulti più anziani della popolazione generale. Nell persone con HIV, si tratta presumibilmente dell’equivalente contemporaneo della sindrome da deperimento AIDS-correlata; ha cinque caratteristiche principali: perdita di peso non intenzionale, debolezza, scarsa resistenza ed energia, basso livello di attività fisiche, lentezza nel camminare. Si ritiene che gli adulti che soddisfano tre di questi criteri abbiano un aumentato rischio di caduta, di disabilità, di una ripresa più lenta e meno completa, di eventi avversi durante i ricoveri in ospedale e di mortalità.

Sulla base della descrizione originale del fenotipo fragile, una serie di articoli hanno concluso che è significativamente più probabile che gli uomini con HIV nello studio MACS avessero un “fenotipo simil-fragile”, se confrontati con uomini HIV-negativi corrispondenti per età, razza e livello di istruzione; che la prevalenza aumenta in modo esponenziale in associazione a CD4 inferiori a 400; e che sintomi persistenti di fenotipo simil-fragile prima dell’uso della ART sono associati a prognosi peggiore dopo l’inizio della terapia. Ma – ed è incoraggiante – almeno uno studio ha avanzato l’ipotesi che una ART che ha successo sia in grado di invertire la fragilità connessa all’HIV, almeno in certi casi.

Una delle più temute conseguenze dell’invecchiamento sono i disturbi cognitivi. Alcuni studi hanno confrontato i tassi di incidenza e prevalenza dei deficit neurocognitivi fra le persone con HIV e i corrispondenti controlli, giungendo a dei risultati contrastanti. In una analisi dello studio MACS su 2.083 uomini con HIV e 2.083 uomini HIV-negativi seguiti fra il I luglio 1996 e il I luglio 2011, l’incidenza di diagnosi di disturbi neurologici è stata significativamente più alta fra le persone con HIV in terapia antiretrovirale che nella coorte di volontari non infetti in ogni fascia d’età (< 40, 40-49, 50-60, > 60). Fra gli aspetti più estremi dei disturbi neurologici, la demenza è una diffusa comorbilità dell’invecchiamento. Di contro, dei dati trasversali raccolti da una coorte a San Francisco hanno trovato poche prove di una associazione fra HIV ed età sulle prestazioni neuropsicologiche, con solo delle differenze marginali fra le persone con HIV e una popolazione di controllo formata da individui con simile provenienza socioeconomica. Per certi versi, queste differenze possono riflettere diverse storie terapeutiche e diverse durate dell’infezione; ad oggi, nessuno studio ha indagato questi problemi in persone che hanno iniziato un regime di ART moderno e ottimale.

Meno studi hanno indagato in modo specifico i problemi dell’invecchiamento in coorti di consumatori di droghe per via endovenosa (IDU). Ma una preoccupazione particolarmente rilevante in questa popolazione è l’HCV, il virus dell’epatite C, ed è stato dimostrato che gli IDU coinfetti con HIV e HCV presentano fibrosi epatica di severità paragonabile a quella di persone infette da HCV soltanto, ma di 9,2 anni più vecchie. Questa scoperta è coerente con l’idea che l’infezione da HIV possa ridurre la sorveglianza immunitaria nei confronti dell’HCV in modo simile agli effetti di un’età più avanzata in persone HCV-positive, ma HIV-negative.

Anche se esiste una letteratura molto più vasta sulle singole patologie associate all’età nelle persone HIV-positive di quanto si possa dar conto in questo report, una spiegazione possibile dell’assenza di chiarezza su quanto il rischio possa essere aumentato a un’età più giovane è che gli studi di popolazione devono ancora includere misure precise dell’invecchiamento immunologico. Questo tipo di analisi potrebbero aiutare a capire se ci sono segmenti della popolazione HIV-positiva in cui il rischio è più elevato a causa di una maggiore immunosenescenza (come paiono suggerire le ricerche che dimostrano associazioni fra marker infiammatori, morbilità e mortalità). Questa è una questione importante cui la ricerca dovrà dedicarsi in futuro.


Farmaci antiretrovirali e invecchiamento

I possibili effetti della tossicità antiretrovirale sul processo di invecchiamento non possono essere ignorati. Anche se degli studi hanno indicato che l’attivazione immunitaria e l’infiammazione persistenti, insieme ai fattori di rischio dipendenti dallo stile di vita, sono associate in modo indipendente alle malattie dell’invecchiamento nelle persone con HIV, i dati suggeriscono anche che le tossicità dei farmaci e delle classi di farmaci possano contribuire, almeno in certi casi.
Sfortunatamente, molti articoli pubblicati fino ad oggi – soprattutto quelli dedicati alla disfunzione dei mitocondri causata dalla ART e allo stress ossidativo – non tengono conto delle perturbazioni immunologiche (per esempio, pochi CD4 naive, rapporti CD4:CD8 invertiti, molti CD8 CD28-negativi senescenti) che possono persistere in coloro che raggiungono la soppressione dell’HIV RNA e aumenti dei CD4 grazie alla ART. Pertanto, la questione non è se siano l’HIV o la ART ad essere associati all’invecchiamento, ma piuttosto in che modo essi contribuiscano a quello che è probabilmente un processo multifattoriale.

Anche se l’associazione fra l’uso di un inibitore nucleosidico della trascrittasi inversa (NRTI) e la tossicità per il DNA mitocondriale (mtDNA) è ben nota, almeno due studi hanno indagato la disfunzionalità dell’mtDNA quale fattore che contribuisce all’invecchiamento precoce nelle persone con HIV.

Uno studio della Università di Newcastle ha messo in evidenza il fatto che gli NRTI possono portare a un accumulo progressivo di mutazioni somatiche nell’mtDNA, come si vede nelle fibre muscolari che mancano di citocromo-c ossidasi (COX) - un enzima essenziale, necessario alla produzione di energia – che rispecchiano quelle in genere associate all’invecchiamento. Mentre 10 persone HIV-negative e 12 HIV-positive che non avevano mai preso ART avevano fibre muscolari normali, le 21 persone con HIV trattate con NRTI presentavano una frequenza aumentata di deficit di COX nelle fibre muscolari (fino al 9,8%) – raggiungendo o superando i livelli attesi nelle persone sane più anziane – e la gravità del deficit era predetta in modo forte dall’esposizione cumulata a NRTI durante la vita.

In precedenza, dei ricercatori dell’Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale (INSERM) francese avevano riferito che la stavudina e la zidovudina, due NRTI analoghi della timidina, inducono disfunzionalità dell’mtDNA e aumentano la produzione di specie reattive dell’ossigeno nei fibroblasti (cellule del tessuto connettivo), con conseguente rallentamento della divisione cellulare. Inoltre, dei marker di senescenza sono stati trovati – in vitro – in adipociti esposti per sette giorni ad analoghi della timidina e in campioni di tessuti adiposi di persone HIV-positive con lipodistrofia, che ricevevano regimi contenenti stavudina o lamivudina.
Per quanto riguarda gli NRTI non-timidinici, è stato dimostrato in vitro che il tenofovir inibisce l’attività della telomerasi nelle cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) attivate (ma non in quelle non attivate), a concentrazioni terapeutiche. Resta da studiare se questo indebolimento dell’attività della telomerasi comporti un più rapido accorciamento della lunghezza dei telomeri nelle cellule attivate in vivo, o abbia una qualche conseguenza sull’invecchiamento.

Anche gli inibitori della proteasi (IP) sono stati coinvolti. Valutando gli effetti del ritonavir o del ritonavir/lopinavir sulle cellule endoteliali delle arterie coronarie umane, uno studio INSERM ha scoperto che gli IP inducevano marker di senescenza, stress ossidativo e infiammazione nei campioni. I marker di senescenza erano aumentati anche nelle PBMC di persone con HIV che ricevevano un regime che includeva IP. Gli autori hanno ipotizzato che la senescenza fosse associata con l’accumulo nelle PBMC e nelle cellule endoteliali di prelamina A, che è noto che distrugge la mitosi e causa danno al DNA nelle cellule della muscolatura liscia, così rischiando di causare instabilità del genoma e senescenza prematura. Tuttavia, uno studio più recente dell’ente di ricerca sull’AIDS francese (ANRS) ha messo in discussione questi risultati: in una analisi di 35 persone HIV-positive in regime di ART con IP non è stata raccolta nessuna prova di un accumulo di prelamina A.

Molti studi hanno indagato specificamente se ci siano prove che la ART possa contribuire alla mortalità in coorti di persone HIV-positive, come ci si potrebbe aspettare se il suo uso accelerasse in modo significativo il processo di invecchiamento. I dati ad oggi disponibili non mostrano prove di un effetto negativo sulla mortalità.

Al di là del ruolo che specifici antiretrovirali possono svolgere nella patogenesi e nell’eziologia dell’invecchiamento, ci sono questioni cliniche importanti che potrebbero sorgere nei pazienti più anziani o in chi ha patologie dipendenti dall’età o altre comorbilità. Oltre alla possibilità di una minore ripresa dei CD4 nonostante la soppressione virale indotta dalla ART, c’è la possibilità di rilevanti differenze farmacocinetiche rispetto a quanto avviene nelle persone con HIV più giovani, a causa del metabolismo epatico e dell’eliminazione renale alterati e di un aumentato rischio di interazioni farmacologiche e di eventi avversi, soprattutto quando molti farmaci servono a gestire HIV, coinfezioni e complicanze legate all’invecchiamento.

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Implicazioni per le terapie

Gli studi sulle aspettative di vita, che indicano l’importanza di raggiungere livelli di CD4 di 500/mm3 o superiori, così come i dati sui marker infiammatori, suggeriscono con forza che la ricerca sugli interventi che si rivolgono alla ripresa dei CD4 e all’infiammazione elevata debba avere la priorità. Sono in studio una gamma di possibili candidati: è stato dimostrato che la citochina IL-7 ha aumentato in modo significativo i livelli di CD4 e CD8 sia naive, sia memoria, e un’analisi recente suggerisce che potrebbe anche in parte ridurre i marker infiammatori. Gli studi iniziali di un approccio di terapia genica sviluppato da Sangamo Biosciences, che prevede infusioni di CD4 modificati in modo da privarli del corecettore CCR5, hanno mostrato miglioramenti dei rapporti CD4:CD8 maggiori di quelli osservati con la sola ART.

Un’ampia gamma di anti-infiammatori sono sotto osservazione in studi sulla patogenesi e la terapia, compresi le statine, gli inibitori COX-2, gli antagonisti del recettore II dell’angiotensina, gli agonisti del recettore attivato del perossisoma gamma (PPA-g), e farmaci come il sevelamer, una sostanza capace di legare i fosfati, che può impedire la diffusione dei batteri intestinali nella circolazione (un problema noto come traslocazione microbica, che può contribuire all’infiammazione nella malattia da HIV).

Perché questa ricerca avanzi rapidamente, tuttavia, è necessaria una stretta collaborazione fra case farmaceutiche e gruppi biotecnologici con poca o nessuna esperienza nella ricerca sull’HIV (o interesse nel mercato dell’HIV), reti di ricerca sull’HIV e di ricercatori indipendenti, e enti regolatori. Alcuni aspetti di questa ricerca rispecchiano il lavoro fatto con le persone più anziane HIV-negative, per esempio il trial VITamin D and OmegA-3 (VITAL) sta indagando se l’integrazione con questi possibili anti-infiammatori è in grado di ridurre il rischio di cancro, di malattie cardiache e di infarto in uomini sopra i 50 anni e in donne sopra i 55.
Forse l’intervento meno tecnologico che è stato suggerito per ridurre l’immunosenescenza è un esercizio moderato, che da tempo si sa essere benefico per la salute e la longevità. Benché sia un territorio ancora nuovo, diversi studi hanno sostenuto che l’esercizio può causare la diminuzione dei livelli di linfociti T senescenti. Anche nel campo delle modificazioni dello stile di vita, un ampio trial ha portato prove che la dieta mediterranea può ridurre in modo significativo l’incidenza di disturbi cardiovascolari, suggerendo che la dieta possa essere benefica per le persone con HIV.

Il possibile contributo delle tossicità dei farmaci, benché al momento sia ampiamente teorico, ciò nondimeno dà forza all’idea che lo sviluppo della ART non dovrebbe essere messo all’ultimo posto; servono farmaci migliori e si dovrebbero progettare nuovi regimi di prima linea senza NRTI e IP. Parallelamente, il significato ultimo dell’eliminazione della ART – una cura dell’infezione da HIV – deve rimanere una priorità della ricerca.

È anche necessaria una ricerca clinica che guidi una pratica basata sulle prove, che sia tesa a prevenire e gestire le patologie legate all’invecchiamento. Fra gli obiettivi di questa ricerca:

  • • La definizione di modalità di prevenzione e trattamento sicure ed efficaci delle coinfezioni (soprattutto dell’HCV), dei tumori, dei disturbi cardiovascolari e polmonari; dei danni epatici e renali; della diminuzione della densità minerale ossea e dell’aumento del rischio di fratture; dei disturbi neurologici e del declino neurocognitivo;
    • La definizione di interventi per ridurre i fattori di rischio comportamentali delle comorbilità connesse all’invecchiamento (come il tabacco o l’uso di droghe);
    • Lo sviluppo di strategie per minimizzare i rischi della polifarmacia; e
    • La standardizzazione di approcci utili a superare le barriere strutturali, psicosociali e socioeconomiche che impediscono alle persone con HIV più anziane e a coloro che più sono a rischio di complicazioni di salute legate all’invecchiamento di avere accesso alle strutture sanitarie e di rimanervi connessi.


Le raccomandazioni dell’OAR HIV and Aging Working Group abbracciano tutte le questioni discusse qui, con maggiori dettagli tecnici, ed è fondamentale che gli attivisti facciano in modo che tutte le strade delineate nella mappa completa dell’OAR per la ricerca futura siano seguite. Se così sarà, possiamo realisticamente sperare che ci si occuperà di quello che resta del rischio di morbilità e mortalità premature per le persone con HIV.



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R.Jefferys, T.Horn_Sistema Immunitario, HIV e Invecchiamento

Messaggio da skydrake » venerdì 7 giugno 2013, 17:59

Dora ha scritto:...... la ART intermittente era associata a un rischio doppio di malattia o di morte...

...una analisi successiva ha confrontato i livelli nei partecipanti allo SMART con quelli di una coorte affine di persone HIV-negative e ha dimostrato che erano in media significativamente più alti persino fra coloro che prendevano la ART....

...questi studi dimostrano che l’infiammazione predice cattive condizioni di salute nelle persone con HIV, coerentemente con la ricerca nelle popolazioni HIV-negative.....

.....può sembrare che questo abbozzo dei parallelismi immunologici fra HIV e invecchiamento dipinga una quadro assai fosco.....

...Molti studi hanno indagato specificamente se ci siano prove che la ART possa contribuire alla mortalità in coorti di persone HIV-positive, come ci si potrebbe aspettare se il suo uso accelerasse in modo significativo il processo di invecchiamento. I dati ad oggi disponibili non mostrano prove di un effetto negativo sulla mortalità...
Quest'ultima osservazione, convalidata anche recentemente:
http://www.aidsmap.com/People-doing-wel ... e/2664793/

Mal si concilia con il resto.
Lo studio sopra osserva che i pazienti vanno incontro ad un invecchiamento precoce, stato che predispone ad una lunga serie di problematiche di salute. Ma uno degli aspetti piú caratterizzanti dell'invecchiamento é l'aumento della mortalità. Come mai altri studi invece evidenziano che non vi sia un aumento della mortalità?

Ne consegue che vi sono altri fattori che compensano questo apparente contrasto.
Questa lunga pubblicazione insiste sulla cattiva aderenza alla terapia, o un suo uso intermittente, che dovrebbe peggiorare di molto le statistiche. Ma a guardar bene, non basta.
Se si aggiunge l'ulteriore ipotesi che i pazienti perfettamente aderenti hanno un'aspettativa di vita uguale ai sieronegativi, allora i conti non tornano, in nessuna maniera.

Prendete carta e penna. Se si fa media della aspettativa di vita tra un gruppo di pazienti altamente aderente e uno altrettanto numeroso con una scarsa aderenza, late presenters ecc., con una aspettativa di vita il 20% inferiore, l'insieme dei pazienti nel complesso ha un'aspettativa di vita inferiore del 10% rispetto ai sieronegativi.
Se prendiamo l'aspettativa di vita un gruppo più ampio di altamente aderenti, pari al 90% del totale e ne facciamo la media con un gruppo molto più piccolo, pari al 10% del totale, di pazienti problematici (non aderenti, late presenters ecc.), con anche il 50% dell'aspettativa di vita del primo gruppo, la media ponderata totale sarà del 95%. Anche cambiando le aspettative di vita dei pazienti problematici non si raggiungerà mai il 100% dell'aspettativa di vita di un sieronegativi.

La matematica ci insegna che é possibile é una sola possibilità: una delle due ipotesi non trova riscontro nella realtà. Ne consegue il verificarsi di uno dei due seguenti scenari:

1) lo studio é sbagliato, impreciso, troppo approssimato (es. Il gruppo di controllo non adeguato)

2) i sieropositivi aderenti hanno una aspettativa di vita SUPERIORE alla media.

Ma il secondo scenario era già stato osservato:
http://hivforum.info/forum/viewtopic.php?f=4&t=1846

a dispetto dello scetticismo con cui era stato accolto



Dora
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Re: R.Jefferys, T.Horn_Sistema Immunitario, HIV e Invecchiam

Messaggio da Dora » sabato 8 giugno 2013, 14:54

skydrake ha scritto:
Dora ha scritto:...... la ART intermittente era associata a un rischio doppio di malattia o di morte...

...una analisi successiva ha confrontato i livelli nei partecipanti allo SMART con quelli di una coorte affine di persone HIV-negative e ha dimostrato che erano in media significativamente più alti persino fra coloro che prendevano la ART....

...questi studi dimostrano che l’infiammazione predice cattive condizioni di salute nelle persone con HIV, coerentemente con la ricerca nelle popolazioni HIV-negative.....

.....può sembrare che questo abbozzo dei parallelismi immunologici fra HIV e invecchiamento dipinga una quadro assai fosco.....

...Molti studi hanno indagato specificamente se ci siano prove che la ART possa contribuire alla mortalità in coorti di persone HIV-positive, come ci si potrebbe aspettare se il suo uso accelerasse in modo significativo il processo di invecchiamento. I dati ad oggi disponibili non mostrano prove di un effetto negativo sulla mortalità...
Quest'ultima osservazione, convalidata anche recentemente:
http://www.aidsmap.com/People-doing-wel ... e/2664793/

Mal si concilia con il resto.
Lo studio sopra osserva che i pazienti vanno incontro ad un invecchiamento precoce, stato che predispone ad una lunga serie di problematiche di salute. Ma uno degli aspetti piú caratterizzanti dell'invecchiamento é l'aumento della mortalità. Come mai altri studi invece evidenziano che non vi sia un aumento della mortalità?

Ne consegue che vi sono altri fattori che compensano questo apparente contrasto.
Questa lunga pubblicazione insiste sulla cattiva aderenza alla terapia, o un suo uso intermittente, che dovrebbe peggiorare di molto le statistiche. Ma a guardar bene, non basta.
Se si aggiunge l'ulteriore ipotesi che i pazienti perfettamente aderenti hanno un'aspettativa di vita uguale ai sieronegativi, allora i conti non tornano, in nessuna maniera.

Prendete carta e penna. Se si fa media della aspettativa di vita tra un gruppo di pazienti altamente aderente e uno altrettanto numeroso con una scarsa aderenza, late presenters ecc., con una aspettativa di vita il 20% inferiore, l'insieme dei pazienti nel complesso ha un'aspettativa di vita inferiore del 10% rispetto ai sieronegativi.
Se prendiamo l'aspettativa di vita un gruppo più ampio di altamente aderenti, pari al 90% del totale e ne facciamo la media con un gruppo molto più piccolo, pari al 10% del totale, di pazienti problematici (non aderenti, late presenters ecc.), con anche il 50% dell'aspettativa di vita del primo gruppo, la media ponderata totale sarà del 95%. Anche cambiando le aspettative di vita dei pazienti problematici non si raggiungerà mai il 100% dell'aspettativa di vita di un sieronegativi.(...)
L'impressione che io ho sempre tratto dagli studi in cui si confrontano le aspettative di vita delle persone con e senza HIV è stata ampiamente confermata dal report di TAG: l'estrema variabilità dei risultati, che mette in contrasto e addirittura in contraddizione questi studi gli uni con gli altri, è in buona parte dovuta al fatto che si mescolano popolazioni di persone HIV+ profondamente diverse e questo falsa tutto.

Non ha senso mettere nello stesso calderone i dati di chi ha contratto l'infezione 20 o 30 anni fa, si è fatto una ventina d'anni di terapie le più diverse, ha subito tutti i danni possibili dell'attivazione immunitaria, ha magari una coinfezione pesante, una storia di abuso di droghe e ora è sulla cinquantina, un'età che già di suo di problemi comincia a darne, con i dati di un ventenne o trentenne che ha contratto l'HIV tre anni fa, è entrato subito in un regime di ART molto più leggero ed efficace rispetto a quelli dei primi tempi, ha sempre fatto sport e mangiato correttamente.

Insomma, non sto a farla troppo lunga: mettere insieme dati di provenienza così diversa è come pensare di far collimare le aspettative di vita di persone con due malattie diverse, che di uguale hanno soltanto il nome e poco più, e poi stupirsi perché ci si trova un range di variabilità di 20 anni. Mi pare chiaro, che in questo caso, il problema non sia la matematica.

Molto più utile sarebbe fare studi estesi (con un gran numero di pazienti) su persone con HIV dalle caratteristiche strettamente simili per età, storia dell'infezione, stile di vita, etc. Allora sì che i risultati direbbero qualcosa di significativo e avrebbe senso confrontarli con dei controlli con le medesime caratteristiche, ma HIV-negativi.



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Re: R.Jefferys, T.Horn_Sistema Immunitario, HIV e Invecchiam

Messaggio da skydrake » sabato 8 giugno 2013, 18:32

Non ha senso mettere nello stesso calderone i dati di chi ha contratto l'infezione 20 o 30 anni fa, si è fatto una ventina d'anni di terapie le più diverse, ha subito tutti i danni possibili dell'attivazione immunitaria, ha magari una coinfezione pesante, una storia di abuso di droghe e ora è sulla cinquantina, un'età che già di suo di problemi comincia a darne, con i dati di un ventenne o trentenne che ha contratto l'HIV tre anni fa, è entrato subito in un regime di ART molto più leggero ed efficace rispetto a quelli dei primi tempi, ha sempre fatto sport e mangiato correttamente.
Semplicemente perché per compensare lo svantaggio di partenza dei primi, che non raggiungeranno mai il 100% di aspettativa, occorre un vantaggio dei secondi. Vedi punto due della mia risposta precedente



Dora
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Re: R.Jefferys, T.Horn_Sistema Immunitario, HIV e Invecchiam

Messaggio da Dora » domenica 9 giugno 2013, 6:00

skydrake ha scritto:
Non ha senso mettere nello stesso calderone i dati di chi ha contratto l'infezione 20 o 30 anni fa, si è fatto una ventina d'anni di terapie le più diverse, ha subito tutti i danni possibili dell'attivazione immunitaria, ha magari una coinfezione pesante, una storia di abuso di droghe e ora è sulla cinquantina, un'età che già di suo di problemi comincia a darne, con i dati di un ventenne o trentenne che ha contratto l'HIV tre anni fa, è entrato subito in un regime di ART molto più leggero ed efficace rispetto a quelli dei primi tempi, ha sempre fatto sport e mangiato correttamente.
Semplicemente perché per compensare lo svantaggio di partenza dei primi, che non raggiungeranno mai il 100% di aspettativa, occorre un vantaggio dei secondi. Vedi punto due della mia risposta precedente
Il problema di fare una media fra i valori di "mele" e "pere" solo perché le vuoi considerare "frutta" è che ti trovi con un valore che non va bene né per le prime, né per le seconde, oppure con un range talmente spropositato che non ti permette di capire (e di predire) nulla.
Questo tipo di "compensazione", poi, mi pare contenere degli elementi di arbitrarietà e di variabilità da ricerca a ricerca non da ridere.

Ho trovato invece molto interessante la parte del report dedicata all'Indice VACS, che può rivelarsi un costrutto utile per i singoli, mentre le statistiche, per il paziente individuale, hanno una rilevanza limitatissima; e anche - naturalmente - interessanti le considerazioni sulla difficoltà di costruire dei campioni per i confronti.
Infine, quello che io trovo davvero importante al di là di proiezioni pur appassionanti sulle aspettative di vita, sono gli interventi per diminuire l'infiammazione, le ricerche che si stanno progettando per migliorare la ripresa immunologica, il fatto che si sviluppi un'azione comune fra ricercatori e attivisti per contrastare il fenomeno dell'invecchiamento - comunque lo si arrivi a definire. Insomma, meno statistica e più medicina. E più politica.


Per finire senza trascurare il tuo punto numero 2: io non posso che augurarmi che tu abbia ragione e che sia qualcosa di più che una bella speranza.
Credo che tu abbia raccolto pochi consensi in quel thread perché i tuoi interlocutori avevano una storia di infezione profondamente diversa dalla tua. In qualche modo, trovi rispecchiata lì la stessa difficoltà a far stare insieme dati (questa volta sulle reazioni emotive) a guardar bene poco confrontabili.



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Re: R.Jefferys, T.Horn_Sistema Immunitario, HIV e Invecchiam

Messaggio da skydrake » domenica 9 giugno 2013, 10:04

A volte, convinto di aver ragione, tendo ad insistere fino ad infastidire i miei interlocutori, quindi aggiungo qualche ulteriore osservazione sempre utilizzando in modo "distorto" di questi studi sulle malattie da invecchiamento per disquisire sulla mortalità:
Dora ha scritto: Il problema di fare una media fra i valori di "mele" e "pere" solo perché le vuoi considerare "frutta" è che ti trovi con un valore che non va bene né per le prime, né per le seconde, oppure con un range talmente spropositato che non ti permette di capire (e di predire) nulla.
Questa é semplice logica insiemistica, a sua volta base delle relazioni ad oggetti. Basta definire un insieme più ampio che includa tutti gli elementi sottostanti. Se un valore non sta bene né ha uno né all'altro insieme, allora le proprietà dell'oggetto derivato non sono ben definite.

In altre parole, perché si possono utilizzare tali dati per fare considerazioni sull'invecchiamento precoce (mischiano pere con mele) ma non sulla mortalità?
Questo tipo di "compensazione", poi, mi pare contenere degli elementi di arbitrarietà e di variabilità da ricerca a ricerca non da ridere.
Questa arbitrarietà si può far ricadere sotto il margine di errore. In molte misure sperimentali, alla quantificazione dell'errore ci si rende conto che il suo range é comparabile al valore della grandezza della misura stessa. Allora occorre rimettere mano all'esperimento per cercare di ridurre l'errore (a meno di limitazioni teorici, come il principio di indeterminazione Schrödinger). Nel caso di studi statistici retrospettivi con una grande mole di dati, come in questi, occorre aggregare i pazienti in gruppi più uniformi possibili (separare appunto mele con mele e pere con pere). Nel caso di nuovi studi sperimentali, occorre porre grande attenzione al gruppo di controllo, in modo che sia perfettamente comparabile ai resta noti gruppi.
In passato avevo sottolineato l'importanza di avere accesso integralmente ai dati degli studi sperimentali appunto perché agendo sulla loro aggregazione é possibile fare ulteriori interessanti osservazioni o, viceversa, far dire ai dati quel che si vuole.

Se ad esempio non possiamo aggregare subito insieme i prezzi della frutta (quella vera) per dire che i prezzi sono aumentati, lo potremmo dire se si dividesse la frutta in diversi gruppi uniformi (solo le mele, solo le pere, solo le fragole ecc.) e si confrontasse il prezzo di ogni gruppo il relativo dell'anno precedente. In seguito, riaggregando opportunatamente i dati, potremmo fare osservazioni anche generali tipo "il prezzo della frutta é aumentato". Detta questa frase cosi sembra che abbia mischiato i prezzi di mele con pere, ma le operazioni fatte possono essere perfettamente coerenti.

Se separassimo i vari gruppi di pazienti (naïve aderenti, naïve non aderenti, late presenters, dediti a stupefacenti, coinfetti, persino sportivi o sedentari ecc.) potremmo far dire alla nostra "frutta" (in questo caso i pazienti) molto di più. Ad esempio, rispondere a domande sull'aumento di mortalità.

I due grandi problemi che vedo invece sono:

1) a furia di dividere di ottengono gruppi molto piccoli e ovviamente per un "oggetto di misurazione" molto complesso e variegato quale é l'essere umano, disquisizioni su gruppi di poche persone non sono statisticamente estendibili al resto della popolazione.

2) gli esseri umani non sono topi di laboratorio con un ciclo di vita di tre anni. Certe domande, come il reale impatto dei nuovi farmaci dopo averli utilizzati per mezza esistenza, non possono trovare risposta se non dopo moltissimi anni.

Credo che tu abbia raccolto pochi consensi in quel thread perché i tuoi interlocutori avevano una storia di infezione profondamente diversa dalla tua. In qualche modo, trovi rispecchiata lì la stessa difficoltà a far stare insieme dati (questa volta sulle reazioni emotive) a guardar bene poco confrontabili.
Le loro esperienze erano di singoli, quindi episodiche e non statisticamente significative. Riguardo alle reazioni, erano appunto emotive.



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Re: R.Jefferys, T.Horn_Sistema Immunitario, HIV e Invecchiam

Messaggio da Dora » domenica 9 giugno 2013, 11:58

skydrake ha scritto:A volte, convinto di aver ragione, tendo ad insistere fino ad infastidire i miei interlocutori
:lol: :lol: :lol:
Dora ha scritto:Il problema di fare una media fra i valori di "mele" e "pere" solo perché le vuoi considerare "frutta" è che ti trovi con un valore che non va bene né per le prime, né per le seconde, oppure con un range talmente spropositato che non ti permette di capire (e di predire) nulla.
Questa é semplice logica insiemistica, a sua volta base delle relazioni ad oggetti. Basta definire un insieme più ampio che includa tutti gli elementi sottostanti. Se un valore non sta bene né ha uno né all'altro insieme, allora le proprietà dell'oggetto derivato non sono ben definite.
Per come la vedo io - e mi spiace ripetermi, ma continuo ad avere una visione terra-terra - il peccato originale è proprio qui: far rientrare in una medesima definizione della malattia da HIV due gruppi di persone che presentano differenze tali da configurare due malattie diverse e quindi, probabilmente, anche due "destini" diversi.
Sulle altre distinzioni ci si può anche arrangiare con le compensazioni, gli aggiustamenti e i trucchetti statistici, ma su quella no.
In passato avevo sottolineato l'importanza di avere accesso integralmente ai dati degli studi sperimentali appunto perché agendo sulla loro aggregazione é possibile fare ulteriori interessanti osservazioni o, viceversa, far dire ai dati quel che si vuole.
Non potrei essere più d'accordo! Non sai quante volte ho rimpianto di trovarmi davanti dati aggregati o addirittura semplici grafici, senza la possibilità di risalire ai dati grezzi ...
Spero dunque che tu abbia firmato la petizione di AllTrials in favore della trasparenza delle sperimentazioni cliniche e dei loro risultati.
Credo che tu abbia raccolto pochi consensi in quel thread perché i tuoi interlocutori avevano una storia di infezione profondamente diversa dalla tua. In qualche modo, trovi rispecchiata lì la stessa difficoltà a far stare insieme dati (questa volta sulle reazioni emotive) a guardar bene poco confrontabili.
Le loro esperienze erano di singoli, quindi episodiche e non statisticamente significative. Riguardo alle reazioni, erano appunto emotive.
Quando ho letto quel thread, ho pensato che ti stavi avventurando in un campo minato, trascurando il fatto che scrivevi in un forum di malati e non in un blog frequentato da ricercatori. Cerchiamo di non fare lo stesso errore adesso.



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Re: R.Jefferys, T.Horn_Sistema Immunitario, HIV e Invecchiam

Messaggio da Dora » venerdì 14 giugno 2013, 6:23

La rivista Cell, nel numero di giugno, ha pubblicato una review dedicata a fare il punto di quel che si sa sull'invecchiamento dal punto di vista genetico e molecolare: The Hallmarks of Aging.
È riferita agli esseri umani in generale, ma la ritengo ugualmente utile per fissare alcune idee a integrazione di quanto abbiamo letto nel più specifico report di Richard Jefferys e Tim Horn, perché la problematicità di aspetti quali l'aumento dei radicali liberi dell'ossigeno e la senescenza cellulare, causata dall'ambiguità del loro ruolo fisiologico - negli ultimi tempi considerato in modo troppo monolitico - potrebbe contribuire a spiegare la difficoltà di dare un'interpretazione univoca dell'invecchiamento nella malattia da HIV (e la conseguente enorme variabilità delle stime sulle aspettative di vita).

Su Le Scienze è uscita una recensione di questa review, che mi pare sintetizzare bene l'articolo, che è lungo ma chiaro e, per chi desidera leggerlo, è open access.


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I nove segni molecolari e cellulari dell'invecchiamento

11 giugno 2013

Instabilità genomica e proteomica, accorciamento dei telomeri, alterazioni epigenetiche e mitocondriali, senescenza cellulare: sono alcuni dei marcatori fondamentali associati all'invecchiamento degli animali, in particolare dei mammiferi. Lo afferma una nuova review che traccia lo stato dell'arte delle conoscenze scientifiche sull'invecchiamento e la longevità, sfatando anche alcune diffuse convinzioni, come l'utilità del consumo degli antiossidanti

Il segreto per vivere a lungo non è semplicemente consumare antiossidanti in quantità o mantenere una dieta a basso apporto calorico. Negli studi sulla longevità, e soprattutto nella divulgazione dei loro risultati, regna una certa confusione, ed è per questo che la rivista “Cell” pubblica ora una review - a firma di Maria Blasco e Manuel Serrano, del Centro nazionale spagnolo per la ricerca sul cancro (CNIO), Carlos López-Otín, dell'Università di Oviedo (CNIO), e Linda Partridge, del Max-Planck-Institut per la Biologia dell'invecchiamento a Colonia, in Germania, e Guido Kroemer dell'Università Paris Descartes, in Francia - che cerca di fornire un quadro sistematico delle conoscenze scientifiche in questo campo, così come avvenne nel 2000 per il tumore con gli Hallmarks of Cancer, un lavoro pubblicato sulla stessa rivista e diventato celebre.

Il riferimento non è casuale, perché, come si legge nel documento, “L’attuale situazione della ricerca sull’invecchiamento mostra diversi parallelismi con la ricerca sul cancro dei decenni passati”. Il primo fra tutti è di natura genetica: l’invecchiamento è il risultato di un accumulo di danni al DNA che dura tutta la vita, e vale lo stesso per i processi che causano il cancro, il diabete, le malattie cardiovascolari e quelle neurodegenerative, come l’Alzheimer.

“Il campo della ricerca sull’invecchiamento finora è stato più ricco di teorie che di prove sperimentali", ha spiegato Blasco. “Questa review non discute le teorie bensì le prove molecolari e genetiche. Lo studio individua così nove segni caratteristici, o hallmark, che rappresentano un denominatore comune dell’invecchiamento in tutti gli animali, con particolare riferimento ai mammiferi".

I primi due hallmark infatti riguardano specificamente l’instabilità genomica, a carico sia del DNA nucleare sia di quello mitocondriale, prodotta dall’insieme di danni quali mutazioni e delezioni a carico dei geni, o dal logoramento e dall’accorciamento dei telomeri, le parti terminali dei cromosomi con funzione protettiva. Altri problemi riguardano il livello epigenetico, relativo cioè ai meccanismi che regolano l’attivazione o il silenziamento dei geni, tramite il processo biochimico di metilazione.

Dal genoma si passa poi al proteoma, l’insieme delle proteine necessarie alla vita delle cellule. Il processo d’invecchiamento è legato infatti anche alla perdita di stabilità del proteoma e al malfunzionamento dei meccanismi che garantiscono la sintesi e la conformazione corrette delle proteine.

Un altro grande capitolo riguarda la disregolazione dei meccanismi che sovrintendono alla corretta percezione del fabbisogno di nutrienti da parte dell’organismo e dei successivi processi di sintesi delle biomolecole, che coinvolgono essenzialmente i mediatori dell’ormone della crescita, come il fattore di crescita insulino-simile di tipo 1 (IGF-1). Le ricerche dimostrano che i cammini di segnalazione anabolica accelerano l’invecchiamento e che per converso la restrizione calorica ha l’effetto di prolungare la vita di quasi tutti gli organismi eucarioti studiati.

Anche la funzionalità dei mitocondri, gli organelli deputati alla respirazione cellulare, ha una profonda correlazione con l’invecchiamento, per effetto di meccanismi ancora da appronfondire. Cruciale in questo ambito è la teoria dell’invecchiamento connesso ai radicali liberi mitocondriali, secondo cui la progressiva perdita di funzionalità dei mitocondri dovuta al progredire dell’età determina un aumento dei radicali liberi dell’ossigeno (ROS), che a loro volta causano un ulteriore deterioramento mitocondriale e un danno cellulare globale.

Negli ultimi cinque anni, però, la teoria è stata messa in discussione: i radicali liberi sono sicuramente dannosi se presenti in grandi quantità, ma la loro presenza ha anche un effetto protettivo. E soprattutto, non esistono prove sperimentali che il consumo di antiossidanti, propagandato come un metodo per combattere i radicali liberi, porti a un prolungamento della vita.


Gli ultimi tre capisaldi dell’invecchiamento, infine, riguardano la cellula. Un fenomeno caratteristico è quello della senescenza cellulare, definita come l'arresto del ciclo della cellula accompagnato da una modificazione fenotipica, che ancora non è stato caratterizzato completamente. Gli studi condotti finora portano alla conclusione che si tratta di un processo causato dall’accorciamento dei telomeri ma anche da stimoli diversi che accompagna l'invecchiamento dell'organismo ma che non riguarda tutti gli organi e i tessuti.

Una delle caratteristiche più ovvie dell'invecchiamento è anche la perdita di capacità rigenerativa dei tessuti, legata all’esaurimento delle cellule staminali: con l'aumentare dell'età si verifica per esempio una diminuzione dell'emopoiesi, che si manifesta con una diminuzione nel numero di cellule immunitarie adattative. Questo fenomeno, noto come immunosenescenza, ha come riflesso l'aumento del rischio di anemia e di tumori del sangue. A interessare le cellule nel loro complesso durante l'invecchiamento vi è anche il deterioramento delle segnalazioni intercellulari, siano esse di natura endocrina, neuroendocrina o neuronale, che ha come effetto più evidente una maggiore tendenza all'infiammazione dei tessuti.

La biologia dell'invecchiamento è una branca della scienza ancora relativamente giovane, e diversi aspetti studiati finora sono ancora poco chiari o controversi. Questa review è una visione d'insieme che può servire come base per indirizzare le nuove ricerche.


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Dora
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Re: R.Jefferys, T.Horn_Sistema Immunitario, HIV e Invecchiam

Messaggio da Dora » martedì 2 luglio 2013, 6:09

Non a caso Steven Deeks viene ringraziato nella prima pagina del report sull'invecchiamento, che ha dato inizio a questo thread: è infatti uno dei medici e ricercatori più impegnati da anni sul fronte dell'infiammazione nella malattia da HIV.
A IAS 2013 ha tenuto una conferenza introduttiva intitolata The End of AIDS - Treated HIV as a Chronic Disease, in cui ha descritto come altre malattie stiano divenendo molto più importanti dell'AIDS per le persone con HIV in terapia antiretrovirale e ha sottolineato come la gestione delle co-morbilità connesse all'età sia destinata a diventare (ovunque, non solo nei Paesi più sviluppati) un aspetto sempre più importante nel trattamento dell'HIV.

I temi affrontati sono gli stessi ampiamente discussi in questo thread. Queste le dichiarazioni di Deeks durante la conferenza stampa:



E questa la sua lezione, messa a disposizione da HIVandHepatitis:



Una sintesi della lezione di Deeks scritta da Liz Highleyman per Nam e HIVandHepatitis può essere letta qui. Pertanto, mi limito a ricordare un paio delle diapositive mostrate da Deeks, perché in una sono evidenziate le priorità che la ricerca e la clinica devono affrontare ora che in molte persone si riesce ad ottenere una completa soppressione della viremia grazie alla ART; e nell'altra sono elencate le opzioni terapeutiche in sviluppo per contrastare l'infiammazione cronica e i suoi effetti sull'invecchiamento (diverse di queste ricerche sono analizzate in questa stessa sezione del forum).

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