Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronica?

Ricerca scientifica finalizzata all'eradicazione o al controllo dell'infezione.
Dora
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Re: Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronic

Messaggio da Dora » martedì 28 ottobre 2014, 16:18

Riprendo la questione della correlazione fra attivazione immunitaria e persistenza del reservoir, perché Steven Deeks, insieme a tanti ricercatori del calibro dei due Siliciano, ha pubblicato su PLoS ONE uno studio in cui viene valutata l'associazione fra attivazione dei linfociti T (CD4 e CD8) e quantità di HIV DNA presente nei CD4 quiescenti: CD4+ and CD8+ T Cell Activation Are Associated with HIV DNA in Resting CD4+ T Cells.
Parlare di questo lavoro mi interessa anche perché permette di affrontare, insieme all’infiammazione e all’immunoattivazione, anche la questione dei test per misurare il reservoir di HIV latente, di cui abbiamo discusso la settimana scorsa.

Questo per inquadrare l’argomento:

Dora ha scritto:L’idea da cui parte Deeks è che l’attivazione dei linfociti T e la proliferazione cellulare indotta da questa attivazione contribuiscano in vivo alla persistenza dell’HIV.
È vero, infatti, che si è trovata una associazione abbastanza debole fra persistenza dell’HIV associato a cellule e attivazione dei linfociti T nel sangue.
Ma è anche vero che un'analisi comparativa di differenti tipi di misurazione dei reservoir virali ha mostrato come la frequenza di cellule memoria quiescenti che contengono DNA virale sia fortemente correlata con la frequenza dei CD4 attivati. E l’associazione fra questi fattori è particolarmente stretta nella mucosa intestinale.
Inoltre, l’RNA (ma non il DNA) virale associato alle cellule è più basso nelle persone che sono eterozigoti CCR5Δ32 e si correla con la frequenza di cellule che esprimono il recettore CCR5.
Abbiamo poi che la frequenza di proliferazione delle cellule, così come l’espressione di alcune importanti proteine infiammatorie (PD-1, LAG-3, TIGIT), che aumenta quando aumenta la proliferazione/attivazione delle cellule, predicono le dimensioni del reservoir di DNA virale integrato.

Deeks mostra dunque come esista una implicazione reciproca fra la persistenza e la replicazione dell’HIV e l’attivazione e l’infiammazione dei linfociti T.

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I meccanismi causali dell’associazione fra persistenza dell’HIV e attivazione/proliferazione immunitaria sono complessi, probabilmente multi-direzionali e possono essere diversi in gruppi di pazienti differenti (definiti in base ad età, genere e risposta immunologica).
In questo schema si vede chiaramente come un problema causi e implichi l’altro:

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La questione diventa dunque questa: L’INIBIZIONE DELLA ATTIVAZIONE E/O DELLA PROLIFERAZIONE DEI LINFOCITI T PUÒ CONTRIBUIRE A DISTRUGGERE IL RESERVOIR?
Lo studio di cui parlo qui nasce dall’esigenza – per meglio comprendere come curare l’infezione da HIV – di identificare correttamente come l’ambiente immune dell’ospite possa influire sulle dimensioni del reservoir di HIV latente e sulla distribuzione delle popolazioni di cellule infette quando la ART riduce la replicazione del virus al di sotto della soglia di rilevabilità dei test.

Nelle persone con HIV non in terapia si rileva una forte associazione fra i marker di attivazione e disfunzionalità dei linfociti T (CD38, HLA-DR, CCR5 e PD-1) e i livelli di HIV RNA nel sangue. È chiaro, dunque, che la replicazione del virus contribuisce a queste anomalie immunologiche. Ma vale anche il contrario: che molte di queste anomalie immunologiche contribuiscano ad aumentare i tassi di replicazione dell’HIV, poiché i CD4 attivati sono l’obiettivo preferito del virus.
In assenza di terapia, si è visto che quando i linfociti T hanno alti tassi di proliferazione ed esprimono alti livelli di PD-1 si hanno anche più alti livelli di replicazione dell’HIV.

Invece, l’associazione fra attivazione/disfunzione immunitaria e livelli totali di HIV in persone in terapia soppressiva è molto meno chiara: in certi studi si sono rilevate associazioni positive fra livelli di proliferazione/attivazione dei linfociti T e livelli di DNA o RNA virale nelle cellule, in altri studi queste associazioni non si sono viste.

Uno dei problemi che hanno finora reso così difficile valutare le relazioni fra lo stato immunitario dell’ospite e la dimensione e distribuzione dei reservoir di cellule infette durante la ART è la mancanza di un test validato e accettato da tutti per misurare i livelli di HIV quando la terapia funziona. Sappiamo, infatti, che il quantitative viral outgrowth assay (Q-VOA), che dovrebbe essere il gold-standard, tende a sottostimare le dimensioni del reservoir, mentre i vari tipi di PCR, che non sono capaci di distinguere fra virus capaci di replicazione e virus difettivi, tendono a sovrastimare l’estensione del reservoir.

Il lavoro fatto da Deeks e colleghi è consistito dunque nella ricerca di quali marker di immunoattivazione più strettamente si correlino con i livelli di HIV in una coorte di 30 persone con viremia soppressa dalla ART (HIV RNA nel plasma < 40 copie/mL da più di 3 anni), con più di 350 CD4 da un periodo superiore ai 6 mesi, e che avevano iniziato la terapia o durante la fase precoce dell’infezione (10) , o durante la fase cronica (20).
Per far questo sono stati usati diversi test, che come abbiamo visto hanno caratteristiche e limitazioni diverse:

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L’obiettivo primario dello studio era riuscire a DETERMINARE SE LA FREQUENZA DI CELLULE ATTIVATE SIA IN CORRELAZIONE CON I LIVELLI DI HIV. E quello che Deeks e colleghi hanno trovato è che

  • [divbox]C’È UNA FORTE ASSOCIAZIONE FRA LA FREQUENZA DEI CD4 E DEI CD8 CHE ESPRIMONO L’HLA-DR E LA FREQUENZA DEI CD4 QUIESCENTI CHE CONTENGONO DNA VIRALE (misurato mediante ddPCR – droplet digital PCR).[/divbox]


Questa relazione fra le dimensioni del reservoir latente e l’espressione dell’HLA-DR è presente sia nelle persone entrate precocemente in terapia, sia in quelle che hanno iniziato la ART quando già erano in fase cronica e potrebbe indicare che i CD4 che esprimono l’HLA-DR costituiscono il reservoir di elezione dell’HIV. Si tratterebbe di cellule che proliferano per via omeostatica, un meccanismo di proliferazione che si è dimostrato essere coinvolto in modo cruciale nella persistenza dell’HIV durante la ART.

La principale limitazione di uno studio trasversale come questo è l’impossibilità di stabilire una direzione causale. Deeks e colleghi ritengono che la proliferazione/attivazione dei linfociti T possa aver contribuito alla maggior frequenza di cellule infette. Ma non si può escludere che più virus causino più attivazione e/o proliferazione.

C’è da aggiungere che anche un virus difettoso, incapace di replicarsi, può comunque produrre delle proteine che causano attivazione immunitaria.
Serviranno dunque degli studi interventistici per capire la direzione causale di queste associazioni.

Dal momento poi che non c’è un test accettato da tutti per misurare la quantità totale di HIV capace di replicazione, non è chiaro quale sia il modo migliore per misurare queste associazioni ospite/virus.

In ogni caso, anche se con il loro studio non è stato possibile stabilire la direzione dei nessi causali, Deeks e colleghi ritengono di avere fornito delle prove dell’associazione fra marker di attivazione/proliferazione dei linfociti T e persistenza dell’HIV. Partendo da qui sarà possibile definire meglio il significato biologico dei diversi marker che si usano nella ricerca su HIV, soprattutto quando si sperimentano strategie di riattivazione della trascrizione del virus latente, poiché Siliciano ha dimostrato che, se non si riescono a distruggere le cellule infette riattivate, oltre a non eradicare un bel nulla, c’è il rischio di un aumento delle dimensioni del reservoir.



Dora
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Re: Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronic

Messaggio da Dora » martedì 8 novembre 2016, 11:07

  • Immagine

ACCHIAPPA LA TALPA!
Aggiornamento sugli interventi clinici contro l'attivazione immunitaria/infiammazione
e sui marker contro i quali tentare interventi terapeutici



È da settimane che ho in programma di riprendere la discussione sugli interventi per contrastare l'attivazione immunitaria, ma è una questione molto delicata, che in questi anni è stata fonte di numerose frustrazioni, e ogni occasione è buona per parlar d'altro.
A chi non fosse mai entrato prima in questo thread vorrei chiedere il favore di leggere due post, che permettono di inquadrare a grandi linee il problema:



Ora vorrei vedere la questione dal punto di vista di Peter Hunt, UCSF, che è un altro degli scienziati californiani che dedicano le loro ricerche principalmente ad attivazione immunitaria e infiammazione.
Il Journal of Infectious Diseases ha pubblicato un supplemento al numero di ottobre dedicato a Persistent Inflammation In Treated HIV Disease.
Per fare il punto sull'attivazione immunitaria che persiste nelle persone con viremia controllata dalla ART e gli interventi tentati finora per diminuire l'infiammazione residua, è molto utile una review di Peter Hunt e colleghi dedicata a Immunologic Biomarkers, Morbidity, and Mortality in Treated HIV Infection. Questa review è il proseguimento ideale di un altro lavoro di Hunt pubblicato nel 2014 su Current Opinion in HIV/AIDS - HIV and Ageing: Emerging Research Issues - e vorrei quindi raccogliere insieme qualche spunto su un modello teorico relativo all’impatto che il nadir dei CD4 ha sulle radici più profonde dell’infiammazione nella malattia da HIV e su quella che Hunt chiama la "whack-a-mole" theory, che si ispira al giochino per gatti e bambini chiamato "acchiappa la talpa":

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Una volta visti gli ultimi aggiornamenti teorici, conto nelle prossime settimane di cercare qualche notizia sui trial clinici in corso e già nel prossimo post dirò brevemente qualcosa su un lavoro di ricercatori canadesi e nigeriani presentato a metà ottobre all'HIVR4P (HIV Research For Prevention) di Chicago: parla di come prevenire l'infezione concentrandosi sulle cellule target del virus, ma ci riporta all'aspirina e all'idrossiclorochina, due farmaci che sono stati a lungo candidati, con risultati assai altalenanti, a contrastare l'attivazione immunitaria in persone con infezione cronica e su cui forse non è ancora stata detta l'ultima parola (per l'aspirina vi rimando a questo post e per l'idrossiclorochina al thread Idrossiclorochina contro l'immunoattivazione? NO GRAZIE!).

Cominciamo con Peter Hunt e la necessità di capire quali siano gli obiettivi migliori cui mirare quando si cerca di intervenire contro l’infiammazione.
Mentre c’è fra gli scienziati un ampio consenso sul fatto che l’attivazione immunitaria e l’infiammazione persistono nella maggioranza delle persone con viremia soppressa dalla ART, anche in molte in cui i CD4 tornano a livelli di normalità, e che i marker di attivazione immunitaria e di infiammazione possono essere usati per predire morbilità, mortalità e anche fragilità (quest’ultima intesa come insieme di caratteristiche che definiscono l’invecchiamento), quanto davvero l’infiammazione possa essere considerata causa diretta di malattia nelle persone con HIV rimane una questione controversa. Quello che sappiamo è

  • - che i marker surrogati delle patologie d’organo (per esempio l’emoglobina, la creatinina, le transaminasi …) sono strettamente associati ai marker di infiammazione, di attivazione dei monociti e di coagulazione;
    - che ci sono sempre tanti fattori che confondono le cose – da fattori legati allo stile di vita (fumo, alimentazione, movimento) alla presenza di co-infezioni, alle possibili tossicità della ART;
    - che sui fattori confondenti è spesso abbastanza facile agire e vale sempre la pena farlo – una alimentazione corretta, smettere di fumare, fare attività fisica, curare ove possibile altre infezioni, cambiare regime terapeutico …. sono tutti elementi che contribuiscono ad abbassare il livello di immunoattivazione e di infiammazione.


Noi però vogliamo di più. Vogliamo sviluppare degli interventi mirati e per questo dobbiamo capire a che cosa mirare, quindi trovare dei marker sui quali agire farmacologicamente.
Per questo non basta considerare le relazioni individuali di uno specifico marker con dei risultati clinici, ma bisogna capire come questi marker e ciò che essi indicano interagiscano l’uno con l’altro nei corpi vivi delle persone.

Qui entra in gioco la "whack-a-mole" theory, usata per indicare un comportamento ripetitivo che si rivela inutile, una frustrante pratica di sbarazzarsi continuamente di qualcosa, che continuamente riappare.
Hunt, infatti, dice: “solo perché un particolare marker infiammatorio si associa in modo forte a dei risultati clinici, non necessariamente è il più appropriato da colpire in modo diretto con degli interventi” terapeutici.

Infatti, ci sono dei marker considerati predittori molto forti di malattia, ad esempio i livelli di interleuchina-6 (IL-6), che riflettono lo stato di infiammazione, e di D-dimero, che è un marker della coagulazione. Il primo studio importante che dimostrò che la persistente attivazione dell’immunità innata in persone con viremia soppressa dalla ART predice malattie non-AIDS correlate fu lo studio SMART (Strategies for Management of Antiretroviral Therapy), che riuscì a dimostrare un legame fra infiammazione e coagulazione persistente e rischio di malattie non-AIDS.
Questi due marker si collocano alla fine del percorso che collega l’attivazione immunitaria alla malattia. MA BLOCCARE IL SEGNALE DELL’IL-6 O ABBASSARE I LIVELLI DI D-DIMERO PUÒ NON SERVIRE AD ABBASSARE IL RISCHIO DI MORBILITÀ E DI MORTALITÀ SE NON SI AGISCE SULLE CAUSE SOTTOSTANTI DELLO STATO INFIAMMATORIO. ANZI, SI RISCHIA CHE QUESTE NON SOLTANTO PERSISTANO, MA ADDIRITTURA PEGGIORINO.

Quindi, secondo Hunt, BISOGNA CERCARE DI ANDARE ALLE RADICI DELL’INFIAMMAZIONE E LO SI DEVE FARE ANCHE SE I MARKER CHE RIFLETTONO QUELLE CAUSE PROFONDE TENDONO AD ESSERE ASSOCIATI IN MODO MENO STRETTO CON I RISULTATI CLINICI.
Quali sono le radici dell’infiammazione nella malattia da HIV controllata dalla ART?

Possono essere diverse:

  • - il virus stesso, sia nella forma residuale dei bassi livelli di replicazione che possono persistere anche quando la viremia è soppressa stabilmente dagli antiretrovirali, sia come rilascio da qualche cellula latentemente infetta che si riattiva;
    - la traslocazione microbica;
    - altri virus, come ad esempio il CMV o l’HCV.


Ecco perché contrastare una co-infezione con CMV o curare l’HCV e modificare lo stile di vita permette di abbassare in modo molto sensibile il livello di infiammazione generalizzato.
Ma abbiamo visto che agire sui fattori confondenti non è sufficiente.

Come scegliere, allora, i marker su cui lavorare nelle sperimentazioni cliniche?

Mentre alcuni dei marker che più fortemente predicono morbilità e mortalità nell’infezione da HIV trattata – appunto i marker dell’immunità innata come l’IL-6, della coagulazione come il D-dimero e marker generici di infiammazione come la proteina C reattiva altamente sensibile (hs-CRP) – presentano grandi fluttuazioni da una persona all’altra, e quindi richiedono che si facciano sperimentazioni su campioni molto grandi per riuscire a intercettare degli effetti clinicamente rilevanti, i marker di attivazione dei linfociti T (CD38, HLA-DR …), cioè dell’immunità adattiva, sono molto più stabili fra diversi individui e sono stati usati come marker surrogati in diversi trial pilota. Ma non vanno bene, perché non riescono a predire i risultati clinici nell’infezione trattata da ART.
Secondo Hunt, invece, i marker solubili di attivazione dei monociti (sCD14, sCD163 – anche questi marker dell’immunità innata) potrebbero andare bene, perché riflettono una fonte di infiammazione e di coagulazione molto profonda nel percorso dell’infiammazione nell’infezione da HIV, sono predittori di morbilità e mortalità e in più sono anche relativamente stabili fra una persona e l’altra, quindi possono dare informazioni affidabili anche in piccole sperimentazioni pilota.

Che cosa è successo fra il 2014, quando Hunt pubblicava l’articolo di cui abbiamo parlato finora, e oggi, quando pubblica la nuova review?
Che sono arrivati i risultati dello studio START e dei sotto-studi ad esso collegati sull’impatto dell’inizio precoce della ART sia sull’immuno-attivazione, sia sulla morbilità AIDS- e non AIDS-correlata e che quei risultati cambiano molto del nostro modo di interpretare la questione dell’infiammazione nella malattia da HIV.

Lo studio START ci ha insegnato che L’INIZIO MOLTO PRECOCE DELLA ART RIDUCE, MA NON RIESCE A NORMALIZZARE DEL TUTTO, L’ATTIVAZIONE IMMUNITARIA PERSISTENTE.

Molti studi hanno indagato gli alti livelli di immuno-attivazione persistente anche quando la viremia è soppressa dalla ART, ma per lo più l’hanno fatto in persone che avevano iniziato la terapia in fasi relativamente avanzate della malattia. Questo è un elemento importante, perché sappiamo che UN BASSO NADIR DEI CD4 SI ASSOCIA A PIÙ ALTI LIVELLI DI ATTIVAZIONE IMMUNITARIA DURANTE LA SOPPRESSIONE DELLA VIREMIA MEDIANTE ART.
Già prima dello studio START si sapeva che le persone che iniziano la ART in fase molto precoce (nei primi 6 mesi dall’infezione) raggiungono un set point dell’immuno-attivazione più basso rispetto a quelle che iniziano dopo qualche anno dal contagio. Ma anche un piccolo studio recente ha mostrato che perfino in chi inizia la ART a 2 o 3 settimane dal momento del contagio i livelli dei marker della traslocazione microbica (per esempio sCD14), dell’infiammazione (hs-CRP) e della fibrosi (acido ialuronico) possono rimanere più alti rispetto a quelli delle persone HIV negative.

Oggi però è possibile confrontare i risultati dello studio START con quelli dello studio SMART e trarre delle indicazioni su come procedere nelle sperimentazioni cliniche volte a contrastare l’infiammazione.

Lo START, infatti, ci ha insegnato che la maggior parte dei benefici dell’inizio precoce della ART rispetto a quello ritardato sono dipesi da UNA RIDUZIONE DELLE INFEZIONI E DEI TUMORI (soprattutto di quelli di origine infettiva). Invece, non ci sono state grandi differenze fra ART precoce e ritardata sugli eventi cardiovascolari, e neppure sui marker surrogati di problemi vascolari. Né la ART precoce pare aver diminuito altre patologie associate all’infiammazione come i disturbi neurocognitivi, l’osteoporosi o le broncopatie ostruttive.

L’effetto differenziale dell’inizio immediato della ART che nello studio START si è visto ridurre alcune malattie non-AIDS, ma non altre, è in contrasto molto netto con gli enormi benefici della ART nel ridurre le patologie non infettive che si è visto invece nello studio SMART, nel quale si confrontava un uso continuo della ART con un uso intermittente, in cui periodi in ART venivano alternati con sospensioni guidate, che prevedevano la ripresa dei farmaci quando i CD4 scendevano sotto una soglia stabilita (250 cellule/mm3) e di nuovo la sospensione quando superavano un’altra soglia (350), ma in cui, anche, tutti i partecipanti avevano iniziato la terapia in un momento relativamente avanzato dell’infezione.
Nello SMART, nei partecipanti che prendevano la ART in modo continuo si sono viste diminuire non soltanto le complicazioni infettive, ma anche l’incidenza degli eventi cardiovascolari (e questo ha messo una pietra tombale sopra le interruzioni terapeutiche guidate dalla conta dei CD4).

Al di là delle diverse impostazioni e finalità dei due studi, la spiegazione più convincente per la mancanza di una differenza nell’incidenza degli eventi cardiovascolari e di altre complicanze non infettive vista nei due bracci dello START (ART immediata e ART ritardata), secondo Hunt è che QUESTE PATOLOGIE NON HANNO AVUTO IL TEMPO DI STABILIRSI.
In effetti, in tutti e due i bracci dello START l’incidenza di eventi cardiovascolari è stata di 4 volte inferiore all’incidenza osservata nello studio SMART, perfino nel braccio che non ha mai sospeso la ART. E la ragione di questo è IL NADIR DEI CD4 (che nello START era relativamente alto, con una mediana di 408 cellule/mm3): quanto più il nadir dei CD4 scende, tanto più aumenta il rischio di eventi cardiovascolari; quanto più è alto il livello dei CD4 a cui si inizia la ART, tanto più il rischio cardiovascolare diminuisce.
Stesso discorso vale anche per altre patologie che non sembrano essere migliorate nello START e che, dai disturbi neurocognitivi all’osteoporosi alle broncopatie croniche, sono collegabili a un basso nadir dei CD4.

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Secondo Hunt, alcune malattie connesse all’infiammazione non si sono presentate durante lo studio START, nonostante si sappia che uno stato infiammatorio persistente si stabilisce entro le prime settimane dell’infezione, per due possibili ragioni:

  • 1. perché è necessario superare una certa soglia di infiammazione sistemica affinché si sviluppino certe malattie d’organo e chi inizia la ART molto presto raggiunge livelli di infiammazione al di sotto di questa soglia; oppure – e Hunt ritiene più plausibile questa seconda ragione -
    2. perché ci sono diversi elementi che scatenano l’immuno-attivazione durante la soppressione della viremia mediante ART, e il peso di questi elementi è, sì, in relazione allo stato di immuno-deficienza raggiunto prima di iniziare la ART (nadir dei CD4), ma anche in relazione alla loro localizzazione anatomica:

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Per esempio, sappiamo che i reservoir virali nei CD4 della memoria centrale, che abbondano nei tessuti linfoidi, si formano già nei primi giorni dell’infezione, hanno un aumento esponenziale nelle prime settimane, per poi aumentare sempre più lentamente negli anni a seguire. Quando la viremia viene soppressa dalla ART, questo reservoir persiste nei tessuti linfoidi ed è molto verosimile che contribuisca all’infiammazione persistente e alla fibrosi dei linfonodi e dei tessuti linfoidi, che a loro volta contribuiscono a rendere difettosa la risposta dell’immunità adattiva.
Poiché l’inizio immediato della ART riduce enormemente l’espressione di HIV da parte dei CD4 dei reservoir localizzati nei tessuti linfoidi, è anche plausibile che questo meccanismo spieghi perché la ART precoce abbia diminuito l’incidenza sia degli eventi infettivi, sia dei tumori, nello studio START.
D’altra parte, poiché anche l’inizio molto precoce della ART non riesce a eliminare quei reservoir, questo può spiegare perché le complicanze infettive e neoplastiche rimangano maggiori anche nelle persone che iniziano la ART molto presto rispetto alle persone HIV negative.

Il modello presentato nella figura sopra, oltre a spiegare perché chi inizia la ART in una fase precoce dell’infezione ha mediamente meno problemi cardiovascolari, neurocognitivi e polmonari, ma continua ad avere un rischio di problemi infettivi e di neoplasie un poco maggiore rispetto alla popolazione HIV negativa, può anche essere usato per interpretare i marker di attivazione immunitaria sistemica e di infiammazione.
Ad esempio, se si misurano i livelli di immuno-attivazione sistemica nelle persone con HIV e alto nadir dei CD4 (chi sta sopra la linea tratteggiata della figura), è probabile che la fonte primaria delle anomalie siano i reservoir di HIV nei tessuti linfoidi e possibile che qualche problema venga anche dalla traslocazione microbica. Invece, se i livelli di immuno-attivazione sistemica sono misurati in persone con basso nadir dei CD4, si ha una molto maggiore varietà di fonti e di comparti anatomici che possono contribuire all’infiammazione.

Prendendo dunque per buono il modello proposto da Hunt, ci si può aspettare che i marker di infiammazione misurati in persone con alto nadir dei CD4 predicano eventi infettivi o neoplastici, ma non cardiovascolari, polmonari o neurocognitivi. Viceversa, nelle persone con basso nadir dei CD4 ci si può aspettare che quegli stessi marker predicano tutte le patologie elencate.

Detto tutto questo, si comincia a capire perché le sperimentazioni cliniche fatte finora abbiano dato risultati così deludenti.
Mentre intervenire sullo stile di vita o sulle co-infezioni dà risultati sempre molto incoraggianti, i risultati dei trial fatti su farmaci dalle conosciute proprietà anti-infiammatorie finora sono stati o proprio poca cosa, oppure molto ambigui e altalenanti:

  • - quelli sulle statine hanno visto una diminuzione dei livelli di infiammazione, di attivazione immune e dei marker di disturbi cardiovascolari, ma erano su piccoli numeri di pazienti, quindi devono essere confermati da sperimentazioni molto più ampie (ce n’è una in corso: il trial REPRIEVE);
    - quelli sull’aspirina o sulla clorochina e l’idrossiclorochina, quando sono stati fatti bene, controllati e con placebo, non sono riusciti a ridurre i livelli di immuno-attivazione, né quelli dei marker surrogati;
    - altri su diversi farmaci in uso sono ancora in corso, ma è improbabile che abbiano effetti così potenti da invertire in modo completo l’attivazione immunitaria persistente;
    - i trial in cui si sta cercando di inibire direttamente l’IL-6 (per esempio con tocilizumab) rischiano, come detto, l’effetto “whack-a-mole”: inibendo un momento a valle del processo infiammatorio, è possibile che non si riescano a colpire le cause dell’infiammazione, né altri paralleli percorsi infiammatori, e con ciò che si causino più danni che benefici, perché c’è il rischio di attivare altri meccanismi infiammatori paralleli, fra quelli che si situano a valle del processo infiammatorio.


Insomma, avere ben chiaro quale meccanismo si vuole colpire nel lungo albero che dalle radici dell’infiammazione porta alle foglie della malattia è adesso più importante che mai, perché grazie a sperimentazioni cliniche fondamentali sappiamo oggi molto di più di quanto sapevamo anche solo un paio d’anni fa, e anche perché i grandi trial con tanti pazienti costano molto e, in tempi di risorse sempre più scarse, poter fare piccole sperimentazioni su interventi farmacologici che colpiscano marker precisi e affidabili è oggi ancora più importante che pochi anni fa.



skydrake
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Re: Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronic

Messaggio da skydrake » martedì 8 novembre 2016, 15:11

Confesso che nel leggere la prima parte di questo lungo e dettagliato post ho provato un certo senso di sconforto.
Sono stati fatti tanti passi in avanti nello studio di questa malattia ma c'è ancora moltissimo da fare.
In certi ambiti invece pare che gli anni siano trascorsi senza poi così tanti progressi: siamo quasi nel 2017 e ancora si discute di marker infiammatori. Il rapporto CD4/CD8 era "sospettato" di essere un buon marker fin dalla fine degli anni '80, ma poi si sono succeduti svariate pubblicazioni che ne mettevano il dubbio il ruolo fino allo studio della Mussini nel 2014 (sebbene tuttora alcuni centri di infettivologia non misurano i CD8 "perché non servono").
Se hanno impiegato 25 anni ad accertarsi che il rapporto CD4/CD8 è un buon marker infiammatorio, quanto dovremmo aspettare per gli altri indicati sopra, sia per quanto riguarda l'iperattivazione immunitaria che per la quantificazione dei reservoirs?



Dora
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Re: Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronic

Messaggio da Dora » martedì 8 novembre 2016, 15:33

skydrake ha scritto:Confesso che nel leggere la prima parte di questo lungo e dettagliato post ho provato un certo senso di sconforto.
Sono stati fatti tanti passi in avanti nello studio di questa malattia ma c'è ancora moltissimo da fare.
In certi ambiti invece pare che gli anni siano trascorsi senza poi così tanti progressi: siamo quasi nel 2017 e ancora si discute di marker infiammatori. Il rapporto CD4/CD8 era "sospettato" di essere un buon marker fin dalla fine degli anni '80, ma poi si sono succeduti svariati studi che ne mettevano il dubbio il ruolo fino allo studio della Mussini nel 2014 (sebbene tuttora alcuni centri di infettivologia non misurano i CD8 "perché non servono").
Se hanno impiegato 25 anni ad accertarsi che il rapporto CD4/CD8 è un buon marker infiammatorio, quanto dovremmo aspettare per gli altri indicati sopra, sia per quanto riguarda l'iperattivazione immunitaria che per la quantificazione dei reservoirs?
Guarda che le cose cambiano, la ricerca va avanti e scopre che quello che sembrava ovvio tanto ovvio invece non è, anche e soprattutto perché la cART stessa si è evoluta molto negli anni e il momento in cui la si inizia viene sempre più anticipato. Ad esempio, forse la Mussini vorrà rivedere le sue conclusioni sul rapporto CD4/CD8, o almeno accetterà di problematizzarle per una popolazione come quella italiana, che presenta caratteristiche molto diverse da quelle dei Paesi in via di sviluppo, per cui la valutazione di quel marker rimane di importanza primaria soprattutto perché è facile da misurare, mentre qui forse altri marker possono essere più utili.
Questo scrivono infatti Hunt e colleghi nella seconda review che ho citato:
  • While biomarkers of innate immune activation, inflammation, and coagulation appeared to be the strongest predictors of morbidity and mortality in recent studies of North American cohorts, several biomarkers of adaptive immune defects have continued to predict morbidity and mortality, particularly in resource-limited settings. For example, our own group reported several years ago that T-cell activation (characterized by CD38 and HLA-DR coexpression on CD8+ T cells) predicted subsequent mortality in Ugandans with ART-suppressed HIV loads who were initiating their first ART regimen [36]. Similarly, CD4+ T-cell activation remained an important predictor of mortality in HIV-infected individuals starting their first ART regimen in resource-limited settings as part of a recent AIDS Clinical Trials Group study [37].While higher T-cell activation also predicted mortality in participants with ART-suppressed HIV loads in the North American Study of the Ocular Complications of AIDS cohort [15], this effect was more modest than observed in resource-limited settings, where infectious complications remain a more important cause of death. The plasma kynurenine/tryptophan ratio, a biomarker of the immunoregulatory enzyme IDO, which confers adaptive immune defects, also appears to be a somewhat stronger predictor of mortality in resource-limited settings than in resource-rich settings [15, 16, 19]. A low ratio of CD4+ T cells to CD8+ T cells, which has also been associated with adaptive immune defects in treated HIV infection (and correlated strongly with both T-cell activation and IDO activity), also predicts increased non–AIDS-defining morbidity and mortality during treated HIV infection in many international cohorts, even among those who achieve CD4+ T-cell counts >500 cells/mm3 during suppressive ART [38, 39].


    15. Hunt PW, Sinclair E, Rodriguez B, et al. Gut epithelial barrier dysfunction and innate immune activation predict mortality in treated HIV infection. J Infect Dis 2014; 210:1228–38.

    16. Tenorio A, Zheng E, Bosch R, et al. Soluble markers of inflammation and coagulation, but not T-cell activation, predict non-AIDS-defining events during suppressive antiretroviral therapy [abstract 790]. In: Program and abstracts of the 20th Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections, Atlanta, Georgia, 3–6 March 2013.

    19. Byakwaga H, Boum Y II, Huang Y, et al. The kynurenine pathway of tryptophan catabolism, CD4+ T-cell recovery, and mortality among HIV-infected Ugandans initiating antiretroviral therapy. J Infect Dis 2014; 210:383–91.

    36. Hunt PW, Cao HL, Muzoora C, et al. Impact of CD8+ T-cell activation on CD4+ T-cell recovery and mortality in HIV-infected Ugandans initiating antiretroviral therapy. AIDS 2011; 25:2123–31.

    37. Balagopal A, Asmuth DM, Yang WT, et al. Pre-cART elevation of CRP and CD4+ T-Cell immune activation associated with HIV clinical progression in a multinational case-Cohort study. J Acquir Immune Defic Syndr 2015; 70:163–71.

    38. Serrano-Villar S, Sainz T, Lee SA, et al. HIV-infected individuals with low CD4/CD8 ratio despite effective antiretroviral therapy exhibit altered T cell subsets, heightened CD8+ T cell activation, and increased risk of non-AIDS morbidity and mortality. PLoS Pathog 2014; 10:e1004078.

    39. Serrano-Villar S, Perez-Elias MJ, Dronda F, et al. Increased risk of serious non-AIDS-related events in HIV-infected subjects on antiretroviral therapy associated with a low CD4/CD8 ratio. PLoS One 2014; 9:e85798.



nordsud
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Re: Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronic

Messaggio da nordsud » mercoledì 9 novembre 2016, 8:40

Chissa se è sufficiente il VES per sapere qualcosa del proprio stato infiammatorio..



Dora
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Re: Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronic

Messaggio da Dora » mercoledì 9 novembre 2016, 9:07

nordsud ha scritto:Chissa se è sufficiente il VES per sapere qualcosa del proprio stato infiammatorio..
No, la velocità di eritrosedimentazione manca di specificità e di sensibilità, dice soltanto che c'è uno stato infiammatorio, ma non ne indica le ragioni.
Per una questione complessa e multifattoriale come quella dell'infiammazione nell'infezione da HIV è inutile.



Dora
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Re: Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronic

Messaggio da Dora » lunedì 13 marzo 2017, 12:45

#CROI2017 - L'inibizione dell'IL-1β mediante una sola dose di un anticorpo monoclonale porta a una consistente diminuzione dell'infiammazione in un piccolo studio pilota


Il mese scorso, Priscilla Hsue, University of California, San Francisco, ha presentato al CROI una ricerca in cui per la prima volta si vede un consistente effetto anti-infiammatorio in persone con infezione da HIV ben controllata dalla ART a seguito di un intervento immunomodulante.

IL-1β INHIBITION SIGNIFICANTLY REDUCES ATHEROSCLEROTIC INFLAMMATION IN TREATED HIV

Lo studio della UCSF è molto piccolo, soltanto su 10 persone e in aperto, senza gruppo di controllo, ma è interessante e se i suoi risultati saranno confermati da una sperimentazione più vasta potrebbe offrire una via per diminuire l'infiammazione residua, che persiste in persone stabilmente in terapia antiretrovirale.
Una singola iniezione sottocutanea di 150 mg di un anticorpo monoclonale che blocca il recettore interleuchina-1β impedendo l'interazione fra questa citochina e i recettori di tipo I e II, un farmaco già approvato per trattare disturbi auto-immuni chiamato canakinumab, infatti, ha fatto diminuire in modo molto sensibile lo stato infiammatorio delle arterie di 10 persone con infezione da HIV e viremia stabilmente soppressa dalla ART e con disturbi cardiovascolari chiaramente diagnosticati, o almeno un chiaro rischio di problemi cardiovascolari.

Perché colpire l'IL-1β? Perché è un marker infiammatorio che si trova molto in alto nel processo dell'infiammazione e, se ricordate quanto scritto nel post ACCHIAPPA LA TALPA! Aggiornamento sugli interventi clinici contro l'attivazione immunitaria/infiammazione e sui marker contro i quali tentare interventi terapeutici del novembre scorso, ricorderete anche che alla UCSF hanno capito che l'infiammazione deve essere colpita nelle sue fasi iniziali e non ha molto senso inibire marker a valle del processo infiammatorio:

Dora ha scritto:i trial in cui si sta cercando di inibire direttamente l’IL-6 (per esempio con tocilizumab) rischiano, come detto, l’effetto “whack-a-mole”: inibendo un momento a valle del processo infiammatorio, è possibile che non si riescano a colpire le cause dell’infiammazione, né altri paralleli percorsi infiammatori, e con ciò che si causino più danni che benefici, perché c’è il rischio di attivare altri meccanismi infiammatori paralleli, fra quelli che si situano a valle del processo infiammatorio.

Insomma, avere ben chiaro quale meccanismo si vuole colpire nel lungo albero che dalle radici dell’infiammazione porta alle foglie della malattia è adesso più importante che mai, perché grazie a sperimentazioni cliniche fondamentali sappiamo oggi molto di più di quanto sapevamo anche solo un paio d’anni fa, e anche perché i grandi trial con tanti pazienti costano molto e, in tempi di risorse sempre più scarse, poter fare piccole sperimentazioni su interventi farmacologici che colpiscano marker precisi e affidabili è oggi ancora più importante che pochi anni fa.


Bene, Priscilla Hsue e colleghi hanno fatto una cosa molto semplice: hanno scelto 10 persone (9 uomini e 1 sola donna) con età mediana di 59 anni (range 55-65) e con infezione già da una ventina d'anni e più, con una mediana di 638 CD4 e viremie irrilevabili. 8 di loro prendevano statine, 4 avevano una storia familiare di problemi cardiovascolari, 3 avevano già avuto un infarto.
A queste persone hanno fatto una sola iniezione sottocutanea di canakinumab e hanno misurato i marker infiammatori e di attivazione immunitaria prima dell'anticorpo e 8 settimane dopo. Inoltre, prima e dopo hanno fatto scan delle arterie con FTG-PET (fluorodeoxyglucose positron emission tomography) per valutare lo stato dell'infiammazione arterosclerotica.

Che è successo? Intanto, che i neutrofili sono scesi del 28% alle settimane 2 e 3. Però fortunatamente sono subito risaliti entro la IV settimana.
CD4 e viremie non hanno subito variazioni.
C'è stato un paziente che ha sviluppato Herpes Zoster, ma l'ha risolto in fretta.

Veniamo invece ai risultati positivi: 2 marker infiammatori molto importanti, che predicono problemi seri, sono diminuiti in modo significativo a 8 settimane dall'unica somministrazione di anticorpo anti-IL-1β: l'IL-6 del 30% e l'hs-CRP (proteina C reattiva ad alta sensibilità) addirittura del 41%. Anche l'sCD163, un marker di infiammazione e di attivazione dei monociti è diminuito, anche se meno: del 9%.
La FTG-PET ha mostrato una diminuzione significativa sia dell'infiammazione a livello dell'aorta (-10%), sia dell'attività del midollo osseo (-11%).


Dal momento che è la prima volta che una immuno-terapia riesce a ridurre così tanto dei marker di infiammazione in persone con infezione da HIV controllata dalla ART, i ricercatori della UCSF hanno subito dato inizio a un trial clinico randomizzato 2 a 1 e controllato con placebo su 100 persone: Effect of IL--1β Inhibition on Inflammation and Cardiovascular Risk.
I partecipanti (con almeno 40 anni, almeno 400 CD4 e viremie irrilevabili da almeno 52 settimane) ricevono 150 mg di canakinumab e altri 150 mg dopo 12 settimane e si vedrà che cosa accade confrontandoli dopo 36 settimane con chi ha ricevuto un placebo.


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Rob_Rob
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Re: Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronic

Messaggio da Rob_Rob » lunedì 13 marzo 2017, 20:17

Lo studio cantos arruola 10.000 pazienti quindi questo mab e' in processo di valutazione e registrazione per patologie cardiovascolari. Ma anche alcuni di questi 10 pazienti hiv cadono in quel basket anche se non possono essere arruolati nello studio cantos .
Credi che per hiv questo mab possa avere chances di essere registrato e utilizzato per una grossa fetta fi pazienti hiv? E' un trattamento intenso



Dora
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Re: Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronic

Messaggio da Dora » lunedì 13 marzo 2017, 21:36

Rob_Rob ha scritto:Lo studio cantos arruola 10.000 pazienti quindi questo mab e' in processo di valutazione e registrazione per patologie cardiovascolari. Ma anche alcuni di questi 10 pazienti hiv cadono in quel basket anche se non possono essere arruolati nello studio cantos .
Credi che per hiv questo mab possa avere chances di essere registrato e utilizzato per una grossa fetta fi pazienti hiv? E' un trattamento intenso
Anzitutto, le prime fasi dello studio CANTOS sono finite da tempo e il canakinumab è un farmaco già approvato, almeno dal 2010 - nome commerciale Ilaris:
Dora ha scritto:un anticorpo monoclonale che blocca il recettore interleuchina-1β impedendo l'interazione fra questa citochina e i recettori di tipo I e II, un farmaco già approvato per trattare disturbi auto-immuni chiamato canakinumab
Prima è stato approvato per trattare malattie autoinfiammatorie rare e potenzialmente serie che si chiamano sindromi periodiche associate alla criopirina (CAPS). Poi nel 2013 l'indicazione è stata allargata anche all'artrite gottosa, per trattare il dolore acuto con un'unica somministrazione.
il dosaggio dato nel trial della UCSF di 150 mg è quello minimo e in genere la posologia prevede diverse somministrazioni a distanza di 8 settimane l'una dall'altra.
La precauzione principale per questo farmaco è che si può associare ad aumento dell'incidenza di infezioni - e infatti nel trial si è vista una diminuzione dei neutrofili. Però si sono normalizzati ben prima di un'eventuale seconda iniezione.

Quanto all'uso in persone con HIV, perché no? Hai visto come ha fatto scendere l'hs-CRP anche in chi prendeva le statine? Significa che è un intervento che - se l'efficacia si confermerà nel trial più grande - incide sull'infiammazione che non si riesce a far diminuire neppure prendendo statine. In chi è più a rischio di disturbi cardiovascolari potrebbe fare la differenza fra lo stare bene e il farsi un infarto.



Rob_Rob
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Re: Quali interventi contro l’attivazione immunitaria cronic

Messaggio da Rob_Rob » martedì 14 marzo 2017, 2:29

Wow, cool. Questo è' Ilaris di Novartis. Allora già disponibile anche se e' un mab e il prezzo sarà alto.
Chissa' FDA Che raccomandazione darà per pazienti hiv con uno studio molto specifico in termine di endpoint clinico.



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