L'articolo di Livio Azzoni e Luis Montaner, del Winstar Institute di Filadelfia, è accompagnato da un editoriale firmato da Kathleen Collins e Lucy McNamara, che spiega molto bene il senso della ricerca e che sintetizzerò qui sotto. Che sia stato chiesto proprio a loro di scrivere un editoriale credo dipenda dal fatto che Collins e McNamara, oltre che di staminali, si occupano dell’enzima APOBEC3G, che ha un’importante funzione antivirale e che svolge probabilmente un ruolo anche nel lavoro di Azzoni e Montaner.
Qui la descrizione della ricerca e dei risultati ottenuti:
Dora ha scritto:Nell’ambito della ricerca di una cura funzionale, cioè di un controllo prolungato dell’HIV in assenza di HAART, si sono tentati molti approcci terapeutici volti ad aumentare la capacità di controllo del virus da parte dell’ospite, riuscendo comunque a mantenere i benefici della ricostituzione immunitaria. Luis Montaner, del Winstar Institute di Philadelphia, e colleghi hanno appena concluso e presentato al CROI una piccola sperimentazione clinica randomizzata (cfr. ClinicalTrials.gov: Antiviral Activity of Peg-IFN-Alpha-2A in Chronic HIV-1 Infection) finalizzata a ottenere una proof-of-concept del fatto che il trattamento con INF-alfa può portare a una durevole soppressione dell’HIV in persone in cui gli effetti dannosi della replicazione incontrollata del virus sulla funzione immunitaria sono stati parzialmente invertiti dalla HAART.
In assenza di HAART, il trattamento con INF-alfa (interferone-alfa, anzi precisamente interferone peghilato alfa-2a) ha comportato un parziale controllo della replicazione dell’HIV, con una riduzione dei livelli plasmatici di HIV RNA di circa 0,5 log.
In una dichiarazione riportata da The AIDS Beacon, Montaner ha sottolineato che l’HIV in genere danneggia le cellule immunitarie che producono interferone, ma in questo studio – fatto su una ventina di persone che si trovavano in uno stadio avanzato dell’infezione cronica, con viremie rese irrilevabili dagli antiretrovirali – si è visto che “dare interferone a un sistema immunitario che si è già ripreso [grazie alla HAART], può avere un grande effetto nel dirigere le risposte contro l’HIV, sia nel controllarlo, sia nel ridurne la presenza in luoghi dove sappiamo che si nasconde”.
Paper #631 - Pegylated Interferon-a2A Monotherapy Induces Durable Suppression of HIV-1 Replication and Decreased HIV DNA Integration following ART Interruption (...)
Background: Interrompere la HAART comporta, invariabilmente, un rebound virale, indipendentemente dalla ripresa o meno della funzione immunitaria.
Metodi: 23 pazienti HIV+, con viremie soppresse dalla HAART (VL < 50 copie/mL, CD4 > 450 cellule/mL), sono stati randomizzati per ricevere 180 (braccio A) o 90 (braccio B) μg/settimana di interferone-α2a peghilato (pIFN-α). Dopo 5 settimane di sovrapposizione dei trattamenti, la HAART è stata sospesa e la terapia con pIFN-α è stata proseguita fino alla 24° settimana; i soggetti che hanno avuto un fallimento virologico (VL ≥ 400 copie/mL) o seri eventi avversi hanno ripreso il precedente regime di HAART. L’analisi primaria ha confrontato la proporzione di soggetti con VL < 400 copie/mL dopo 12 settimane di monoterapia con pIFN-α con la proporzione attesa di 0,09 (test binomiale esatto, seri eventi avversi trattati come fallimenti virologici). L’analisi secondaria è consistita 1) nel confronto fra la proporzione di soggetti che hanno mantenuto VL < 400 copie/mL per tutte le 24 settimane con dei controlli storici (interruzione della HAART senza pIFN-α); e 2) nella misura mediante Alu-PCR dei livelli di HIV DNA integrati nelle cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) come correlati del controllo virale.
Risultati: dei 23 pazienti arruolati, 3 sono stati esclusi dall’analisi primaria (1 è stato perso al follow-up, 1 è finito in carcere e 1 ha avuto insufficienza epatica di grado 2). 9 dei 20 pazienti rimanenti (45%) hanno mantenuto viremie < 400 copie/mL per 12 settimane, un risultato significativamente maggiore rispetto alla proporzione attesa di 0,09 (braccio A, p = 0.0088; braccio B, p = 0.0010, bracci combinati, p <0.0001). 4 di questi 9 pazienti hanno avuto viremie < 48 copie/mL (p = 0.0027, bracci combinati). Una analisi di sensitività che ha incluso i 3 soggetti esclusi ha confermato il risultato (39%, braccio A, p = 0.0178, braccio B, p = 0.0017, bracci combinati, p <0.0001). I 9 pazienti con viremie < 400 copie/mL alla 12° settimana hanno continuato il pIFN-α per altre 12 settimane; alla 24° settimana, 6 su 9 pazienti (67%) avevano viremie < 400 copie/mL in monoterapia con pIFN-α. Il numero dei CD4 è rimasto superiore alle 300 cellule/μL in tutti i soggetti. Gli eventi avversi sono stati 1 caso di neutropenia e 3 di depressione. Dopo la ripresa della HAART, tutti i pazienti hanno riportato le viremie al di sotto delle 48 copie/mL. Si è osservata una netta diminuzione (p=0,01) nelle copie di HIV DNA integrate nei CD4 fra i valori al basale e quelli alla 12° settimana in tutti i soggetti che hanno mantenuto viremie < 400 copie/mL, ma non in coloro che hanno avuto un rialzo virale > 400 copie/mL.
Conclusioni: abbiamo fornito la prima proof-of-concept che una immunoterapia basata su pIFN-α comporta un controllo durevole della replicazione dell’HIV a seguito dell’interruzione della HAART. Abbiamo anche dimostrato, per la prima volta, che il controllo virale mediato dal pIFN-α ha un’influenza sull’HIV. (...)
Dall'editoriale di Collins-McNamara: Interferon-alpha therapy: towards an improved treatment for HIV
Azzoni e colleghi hanno studiato le potenzialità dell’interferone-alfa (IFN-α) nel sopprimere la replicazione dell’HIV. In quello che potrebbe rivelarsi come un primo passo verso una cura funzionale, hanno scoperto che l’IFN-α consente a certe persone di mantenere basse viremie per 12-24 settimane in assenza di ART. Inoltre, hanno scoperto che, nei pazienti che hanno una buona risposta virologica all’IFN-α, questo riduce i livelli di provirus dell’HIV nelle cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC, in sostanza i CD4). Questo risultato fa pensare che l’IFN-α possa eliminare i genomi dell’HIV latenti, una possibilità che potrebbe dare qualche indicazione nella ricerca di una cura dell’HIV, che sia sterilizzante o funzionale.
L’ IFN-α si usa in clinica per trattare l’epatite B e C e numerosi studi hanno stabilito che questa citochina è in grado di limitare in vivo la replicazione dell’HIV. Studi differenti hanno confermato che l’IFN-α può ridurre la viremia e ritardare la progressione della malattia in pazienti viremici. Tuttavia, le potenzialità dell’IFN-α nel sopprimere la viremia in pazienti che hanno carica virale ben controllata sono meno chiare. Di recente, uno studio ha sottoposto dei pazienti in ART, con viremia al di sotto delle 400 copie/ml per almeno 6 mesi e CD4 maggiori di 350 cellule/mL a una serie di tre interruzioni strutturate di trattamento (STI) della durata di 4 settimane, durante le quali i pazienti hanno ricevuto terapia con IFN-α oppure nessun trattamento. Il trattamento è poi stato sospeso fino alla fine del trial. Si è visto che la somministrazione di IFN-α smorzava in modo significativo il rebound virale durante le 4 settimane di STI, ma non allungava il tempo prima della ripresa della ART dopo che il trattamento con IFN-α veniva sospeso. In questo studio si è anche osservato che l’IFN-α nuoceva ai pazienti con basso nadir dei CD4.
Lo studio di Azzoni e colleghi è il primo che riesce a dimostrare un effetto del trattamento con IFN-α sul rebound virale durante un’interruzione della ART durata alcuni mesi, ed è il primo che riesce a identificare un effetto dell’IFN-α sul reservoir provirale dell’HIV.
In questa ricerca, gli autori hanno reclutato 23 pazienti in terapia antiretrovirale, con HIV RNA nel sangue inferiore a 50 copie/ml. Tutti i partecipanti hanno ricevuto IFN-α in aggiunta alla ART per 5 settimane; poi la ART – ma non l’IFN-α – è stata sospesa per 12-24 settimane. La soppressione virale si è mantenuta per 12 settimane di sospensione terapeutica nel 45% dei pazienti e per 24 settimane nel 30%. In entrambi i casi, la proporzione di pazienti con viremie soppresse è stata significativamente maggiore di quanto ci si aspettasse.
Secondo gli autori, il livello di soppressione più alto osservato in questo studio rispetto ad altri trial può dipendere dalla co-somministrazione di Peg- IFN-α-2A con ART prima dell’interruzione del trattamento antiretrovirale.
C’è da aggiungere che i soggetti arruolati in questo studio avevano viremie completamente soppresse (< 50 copie/ml) e un buon livello di ricostituzione immunitaria (CD4 > 450 cellule/mL).
Gli autori, inoltre, hanno valutato il livello di HIV DNA integrato nei CD4 in 13 pazienti, 6 dei quali hanno avuto un fallimento virologico, mentre 7 hanno mantenuto la soppressione della viremia a 12 settimane dalla sospensione della ART. Non si è visto nessun cambiamento nelle copie di HIV DNA nei CD4 nei pazienti che hanno avuto fallimento virologico. Questo risultato è interessante, perché dimostra che, in presenza di IFN-α, si può fare una interruzione terapeutica senza che aumenti in modo rilevabile la dimensione del reservoir latente dei CD4.
D’altra parte, nei 7 pazienti che hanno mantenuto la soppressione virale a 12 settimane si è vista una diminuzione significativa dell’HIV DNA nei CD4. Questo risultato inatteso fa pensare che l’IFN-α, quando funziona al meglio, possa essere capace non solo di sopprimere la replicazione virale migliorando la risposta immune all’HIV, ma anche contribuire alla distruzione del reservoir virale.
Questo studio era piccolo e ha dovuto servirsi di controlli storici, quindi i suoi risultati devono essere interpretati con cautela. Tuttavia, fanno nascere domande interessanti:
- 1) In che modo l’IFN-α attiva la risposta immune per sopprimere la replicazione virale e ridurre il reservoir provirale?
L’IFN-α promuove una risposta antivirale all’HIV che inibisce la replicazione in diverse fasi del ciclo di replicazione del virus. In particolare, l’IFN-α sovraregola in vitro tre proteine: l’APOBEC3G, la TRIM5α e la teterina (la sovraregolazione di TRIM5α e teterina è stata confermata anche in vivo). È possibile che la sovraregolazione di questi fattori in risposta a terapia con IFN-α inibisca la replicazione dell’HIV direttamente, oppure attivando altre cellule immunitarie. Una ricerca di Collins e McNamara ha proprio dimostrato che l’APOBEC3G può migliorare il riconoscimento delle cellule infette da HIV da parte dei CD8 citotossici e delle cellule natural killer (NK).
- 2) In che modo l’IFN-α potrebbe contribuire a una riduzione del DNA provirale dell’HIV nei CD4?
Se i genomi provirali individuati nella ricerca di Azzoni e Montaner rappresentano virus latente, allora né l’APOBEC3G, nel la TRIM5α, né la teterina dovrebbero avere alcun impatto sulla quantità di HIV DNA rilevato. E allora il fatto che si sia rilevata una diminuzione nel numero dei genomi dell’HIV può far pensare che l’IFN-α riattivi il virus latente, portando alla morte delle cellule infette mediante gli effetti citotossici del virus o l’azione del sistema immunitario.
In alternativa, la diminuzione del genomi provirali in certi pazienti trattati con IFN-α potrebbe indicare che una parte di questi genomi proviene da una qualche forma di replicazione che persiste durante la ART, piuttosto che da virus latenti. In questo caso, il meccanismo attraverso il quale l’IFN-α potrebbe ridurre il numero di genomi provirali trovati sarebbe più evidente. Tuttavia, anche se ci sono delle prove che una certa replicazione virale possa verificarsi in qualche paziente con viremia soppressa dalla ART, la maggior parte delle prove fa pensare che la replicazione residua non sia una fonte importante di persistenza virale in questi pazienti.
Per capire meglio questa scoperta, bisogna dunque riuscire a confermare che l’IFN-α riduce la quantità di HIV DNA nei CD4 di almeno alcuni pazienti.
- 3) Perché la terapia con IFN-α riesce a sopprimere la replicazione dell’HIV solo in alcune persone?
Analogamente a quanto avviene nell’infezione da HCV, in cui la risposta al trattamento con IFN-α è associata al polimorfismo nel gene IL28B, Azzoni e colleghi hanno esaminato vari polimorfismi associati a un migliore o a un peggiore controllo di HCV e HIV. Non hanno trovato nessuna associazione fra genotipi e risposte all’IFN-α. Ma questo studio era troppo piccolo per poter stabilire relazioni del genere.
Una possibilità è però che certe caratteristiche ancora da capire dell’HIV determinino la risposta individuale all’IFN-α, come accade nel caso dell’HCV, in cui i pazienti con genotipo 1 rispondono meno bene alla terapia rispetto ai pazienti con genotipo 2 o 3.
CONCLUSIONI
Anche se i risultati di questo studio devono essere confermati da una coorte di pazienti più ampia, le loro implicazioni cliniche possono essere importanti, perché dopo lo studio SMART – che ha dimostrato che le interruzioni della ART possono aumentare considerevolmente il rischio di malattie opportunistiche o di morte – è divenuto difficile stabilire l’efficacia di terapie finalizzate a limitare il rebound virale, perché non si può rischiare di mettere in pericolo la salute dei partecipanti alle sperimentazioni. Invece, lo studio di Azzoni e Montaner ha dimostrato che è possibile sottoporre dei pazienti a interruzione terapeutica senza aumentare il reservoir di HIV DNA nel sangue periferico: la somministrazione di IFN-α prima e durante le sospensioni della ART potrebbe offrire un modo più sicuro di valutare il controllo virale in assenza di terapia antiretrovirale.
Approfondire lo studio di un trattamento con IFN-α in pazienti in ART migliorerà la nostra comprensione del modo in cui si può limitare la replicazione virale in assenza di terapia e fornirà uno strumento per studiare approcci alternativi a una cura dell’infezione.
ALTRE FONTI:
- - Articolo di Azzoni-Montaner: Pegylated Interferon-α2A mono-therapy results in suppression of HIV-1 replication and decreased cell-associated HIV DNA integration.
- Recensione di Liz Highleyman per HIVandHepatitis: Pegylated Interferon May Maintain HIV Suppression and Reduce Viral DNA Integration.