ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reservoir?

Ricerca scientifica finalizzata all'eradicazione o al controllo dell'infezione.
Dora
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Re: ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reserv

Messaggio da Dora » sabato 18 agosto 2012, 10:19

Leon ha scritto:BISOGNA INNANZITUTTO ACCERTARE SE IL FENOMENO ESISTE O NO (dove nel "no" comprendo anche artefatti statistici più o meno involontari.
Richard Jefferys ha scritto:Una analisi indipendente della frequenza dei PTC – che gli autori riconoscono essere nata sulla scia dei dati della VISCONTI – è stata pubblicata online il 23 luglio negli Archives of Internal Medicine. Sono state identificate 259 persone tratte dalla coorte multi-nazionale CASCADE per aver ricevuto la ART entro 3 mesi dal momento dell’infezione. In questa analisi, la probabilità di mantenere lo status di PTC a 24 mesi dall’interruzione della ART è stata del 5,5%, e le caratteristiche di queste 11 persone non differivano da quelle del resto della popolazione studiata.
Ho letto l’articolo di Sara Lodi e colleghi sui 259 pazienti (su poco più di 25.600) tratti dal CASCADE ed entrati in terapia entro 3 mesi dal momento della sieroconversione. È molto interessante, perché dà una sua risposta alla domanda se il fenomeno dei “post-treatment controllers (PTC)” esista o no.

La sua risposta è SÌ:
  • “la maggior parte dei pazienti sperimenta un rebound del virus molto rapidamente dopo l’interruzione della ART; ciò nondimeno, anche se i PTC sono rari, i risultati di questo studio confermano la loro esistenza.”
Tuttavia, qualche pasticcio statistico i ricercatori della VISCONTI devono averlo fatto.

Racconto brevemente come Lodi e colleghi sono arrivati a questa conclusione.

La frequenza dei PTC secondo la lettera di Hocqueloux a AIDS del 2010 è 15,6%. Incredibilmente più alta rispetto allo 0,5% di pazienti che ci si attende riescano a controllare da soli, senza farmaci, la viremia.

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Questo ha spinto i ricercatori del CASCADE (Concerted Actionon Seroconversion to AIDS and Death in Europe), un insieme di diverse coorti di pazienti in Europa, Australia, Canada e Africa sub-sahariana, di cui si conosce la data di sieroconversione, a raccogliere i dati relativi ai 259 pazienti che rispondevano a questi criteri:
  • 1. meno di tre mesi fra l’ultimo test negativo e il primo positivo e/o prove di laboratorio di sieroconversione acuta (positività alla real time PCR in assenza di anticorpi o antigeni con meno di 4 bande del WB);
    2. inizio della ART entro 3 mesi dalla sieroconversione e somministrazione della terapia per almeno 3 mesi;
    3. successo della terapia (HIV RNA < 50 copie/mL durante la ART);
    4. interruzione di ogni trattamento antiretrovirale per 30 giorni o meno.

In queste persone, è stato stimato il tempo mediano intercorso dall’interruzione della ART alla perdita dello status di PTC, definita come la data di ripresa della terapia e la prima di due volte consecutive in cui i livelli di HIV RNA sono stati maggiori di 50 copie/mL.
La probabilità di mantenere lo status di PTC a 12 e a 24 mesi dall’interruzione della ART è stata stimata, rispettivamente, dell’8,2% (95% CI, 5.2%-12.2%) e del 5.5% (95% CI, 3.1%-9.0%).

  • • 11 persone hanno mantenuto lo status di PTC per 24 mesi dopo l’interruzione della terapia e avendo preso la ART per un tempo mediano di 1 anno (range: 0,7-1).

    • La loro età mediana era di 29 (28-37) anni; 4 erano donne.

    • 5 erano state trattate con una combinazione iniziale contenente un IP boosterizzato; 2 con un IP non boosterizzato; 4 con un NNRTI.

    • Il numero mediano di CD4 nel periodo di sospensione della terapia era 901 (764-1048).

    • Le caratteristiche di questi pazienti e la loro storia terapeutica non differivano in modo significativo da quelle della popolazione complessiva dei 259 pazienti.

Lodi e colleghi sostengono che i risultati della loro ricerca confermano l’esistenza dei PTC, anche se si tratta di casi rari e molto meno rispetto ai dati di Hocqueloux: 5,5% di pazienti, a 2 anni dalla sospensione della terapia.
Ritengono che questi risultati discordanti possano dipendere dall’impostazione dello studio: Hocqueloux ha incluso solo le persone che non avevano assunto ARV per almeno 24 mesi; Lodi ha incluso tutti coloro che erano a rischio di perdere lo status di PTC dopo interruzione della ART. In questo modo, le persone che hanno mantenuto lo status di PTC per meno di 24 mesi sono state escluse dalla valutazione del rischio. È quindi possibile che sia stata inclusa nello studio una selezione di pazienti che non hanno avuto bisogno di terapia per almeno 24 mesi, e che pertanto avevano un miglior profilo virologico.
L’analisi di Lodi e colleghi, permettendo l’inclusione di tutte le persone a rischio di perdere lo status di PTC, fornisce pertanto una stima più accurata.



Leon
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Re: ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reserv

Messaggio da Leon » sabato 18 agosto 2012, 18:59

Leon ha scritto:...Poi bisogna anche che ripeschi dei grafici su delle "fasi" (che hanno anche un nome che non ricordo più), perché coi tempi della fase acuta/precoce non si scherza, e a mettere insieme 100 giorni, 3 mesi e ADDIRITTURA 6 mesi, come hanno fatto 'sti francesi, si combina un gran pasticcio e basta.
Sono riuscito a ripescare le figure che dicevo, che si riferiscono all'infezione acuta/precoce e individuano delle fasi dette "stadi di Fiebig" (ecco il nome che non mi veniva!). Riporto qui sotto solo la prima un po' perché fornisce la definizione delle varie fasi, ma soprattutto perché adattare 'ste robe è un tal lavoraccio che, per le altre figure/tabelle, rimando direttamente a pagina http://www.nature.com/nri/journal/v10/n ... 74_ft.html , dove le trovate tutte.

AVREI *TANTO* VOLUTO anche tradurre le didascalie, ma Dora mi ha minacciato delle tali scenate se non le avessi lasciato questo onore che ho proprio dovuto cedere. Provvederà dunque lei.

A parte ciò, mi preme evidenziare due elementi:

1) Come si vede immediatamente dall'immagine "a", addirittura CINQUE GIORNI, IN FASE ACUTA, FANNO DIFFERENZA, tanto che i primi stadi di Fiebig si succedono appunto a distanza di tale intervallo di tempo (più o meno).

2) I CENTO GIORNI della coorte Visconti coincidono esattamente con il tempo che, appunto attenendosi a questa stadiazione secondo Fiebig, segna il confine tra la fase ACUTA e la fase CRONICA PRECOCE.

Ora, anche se, stando agli autori del lavoro da cui è tratta la figura, GIA' DOPO (un po' meno di) QUARANTA GIORNI DAL CONTAGIO SI E' IRREVERSIBILMENTE IN MËRDA (si entra infatti - almeno sotto l'aspetto "vaccinale", che è quello di cui si occupa lo studio - nel periodo "point of no return"), a me pare che i suddetti cento giorni qualche senso lo trovino ugualmente, mentre andare a scartabellare su tempi più lunghi (tipo i sei mesi della tizia del messaggio iniziale) non ho ben capito che senso abbia.


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Dora
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Re: ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reserv

Messaggio da Dora » domenica 19 agosto 2012, 10:25

Leon ha scritto:AVREI *TANTO* VOLUTO anche tradurre le didascalie, ma Dora mi ha minacciato delle tali scenate se non le avessi lasciato questo onore che ho proprio dovuto cedere. Provvederà dunque lei.
Thanks, darling, I really appreciate your unselfishness. :evil:

Per evitare doppioni, ho pensato più utile tradurre la didascalia di una figura tratta da un articolo dell'anno scorso di Myron Cohen sul New England (Acute HIV-1 Infection), che in qualche modo riassume quelle dell'articolo su Nature:

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Re: ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reserv

Messaggio da Dora » giovedì 17 gennaio 2013, 7:41

Il New England Journal of Medicine inizia l’anno dedicando molta attenzione al trattamento dell’infezione da HIV durante la fase acuta e ai benefici che questo comporta sull’evoluzione della malattia.
Pubblica infatti in tutta evidenza ben due articoli – uno studio sulla miglior ripresa dei CD4 in caso di terapia precoce (CD4+ T-Cell Recovery with Earlier HIV-1 Antiretroviral Therapy) e uno che riporta i risultati dello studio SPARTAC sugli effetti di un breve corso di ART durante l’infezione primaria (Short-Course Antiretroviral Therapy in Primary HIV Infection) - e li fa accompagnare da un editoriale di Bruce Walker e Martin Hirsch (Antiretroviral Therapy in Early HIV Infection).

Non so se oggi riuscirò a scrivere un post su questi articoli, ma cercherò di farlo al più presto.



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Re: ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reserv

Messaggio da Dora » sabato 19 gennaio 2013, 9:07

Dora ha scritto:Il New England Journal of Medicine inizia l’anno dedicando molta attenzione al trattamento dell’infezione da HIV durante la fase acuta e ai benefici che questo comporta sull’evoluzione della malattia.
Pubblica infatti in tutta evidenza ben due articoli – uno studio sulla miglior ripresa dei CD4 in caso di terapia precoce (CD4+ T-Cell Recovery with Earlier HIV-1 Antiretroviral Therapy) e uno che riporta i risultati dello studio SPARTAC sugli effetti di un breve corso di ART durante l’infezione primaria (Short-Course Antiretroviral Therapy in Primary HIV Infection) - e li fa accompagnare da un editoriale di Bruce Walker e Martin Hirsch (Antiretroviral Therapy in Early HIV Infection).
Ecco – in sintesi – che cosa dicono questi lavori.

Alcuni studi osservazionali hanno fatto ipotizzare che la ART somministrata durante l’infezione primaria possa dare benefici durevoli, limitando il danno immunologico causato dall’HIV.
Lo SPARTAC (Short Pulse Anti-Retroviral Therapy at Seroconversion), un trial in aperto condotto in Europa, Sud America, Australia e Africa, aveva l’obiettivo di stabilire l’efficacia della somministrazione di antiretrovirali per un breve periodo a partire dalla fase acuta dell’infezione.

Fra il 2003 e il 2007, i ricercatori hanno randomizzato 366 pazienti (il 60% uomini) in infezione primaria (variamente definita - “pragmaticamente”, dicono gli autori dell’articolo) da HIV-1 sottotipo B o C, in modo da somministrare loro 12 settimane di ART, 48 settimane di ART, oppure nessuna terapia (che è lo standard, al momento) e li hanno seguiti per una media di 4,2 anni.
L’end point primario era o il raggiungimento di un valore assoluto di 350 CD4, oppure l’ingresso in una terapia antiretrovirale di lunga durata.
Durante il follow-up, soltanto i pazienti del gruppo che ha ricevuto la ART per 48 settimane hanno dimostrato un ritardo nel raggiungere la soglia dei 350 CD4: solo il 29% di loro ha visto scendere i CD4 sotto i 350, mentre questo è accaduto al 40% di coloro che hanno ricevuto la ART per 12 settimane e a circa il 40% di chi la terapia non l’ha ricevuta.
La proporzione di coloro che sono infine entrati in terapia di lunga durata è stata simile nei diversi gruppi.
A 36 settimane dalla fine della breve terapia iniziale, le persone che avevano ricevuto la ART per 48 settimane avevano livelli di HIV RNA significativamente più bassi rispetto ai pazienti degli altri due gruppi (–0.44 log10 copie/mL).
Tuttavia, poiché le risposte immuni dei CD4 e CD8 HIV-specifici non sono risultate in correlazione con questi dati, Walker e Hirsch, nell’editoriale che accompagna questo articolo, si chiedono se questi risultati abbiano una qualche rilevanza clinica.

Il limite principale di questo studio è, anzitutto, il fatto che non era randomizzato. Ma anche la definizione di “infezione precoce”, che gli autori ritengono “pragmatica”, implica che sia stata arruolata una popolazione molto eterogenea di pazienti.

La conclusione dei ricercatori dello SPARTAC è comunque che l’inizio precoce della terapia e il suo prolungarsi per 48 settimane ha comportato un beneficio maggiore per i pazienti.

******************************

Il secondo articolo uscito sul New England racconta i risultati di uno studio osservazionale prospettico svolto a San Diego fra il 1996 e il 2010 su 468 pazienti (per il 95% uomini), con infezione acuta o in fase iniziale da HIV-1 sottotipo B: 231 di loro hanno ricevuto la ART entro 4 mesi dal momento dell’infezione, mentre 384 l’hanno iniziata più tardi.

Il 64% dei pazienti trattati precocemente ha raggiunto l’end point primario di una risalita dei CD4 a ≥900 cellule/mm3 durante i 48 mesi di osservazione, a fronte di un 34% dei pazienti trattati più tardi (P<0.0001). Per coloro che hanno iniziato dopo i 4 mesi scelti come definizione della fase acuta, il tempo mediano per raggiungere la soglia dei 350 CD4 è stato di soli 12 mesi, a indicare che anche se il trattamento non è stato iniziato precocemente, era probabile che si rendesse presto necessario.
Non si è trovata una correlazione fra il livello di HIV RNA nel sangue al momento di inizio della terapia e la ripresa dei CD4.

Anche questo studio è stato fatto su una popolazione assai eterogenea, perché alcuni partecipanti erano in fase di pre-sieroconversione, altri erano stati diagnosticati solo sulla base di un test anticorpale positivo, altri erano in una fase iniziale più avanzata. Inoltre, il trial non era randomizzato e ai partecipanti è stato semplicemente offerto di iniziare la ART, lasciando a loro la decisione. Quindi chi ha iniziato subito potrebbe non essere rappresentativo della più ampia popolazione delle persone in fase acuta o iniziale.
Anche per questo studio, infine, il follow-up non è stato abbastanza lungo da permettere di capire davvero se il trattamento così precoce offra reali benefici clinici in termini di progressione della malattia.

I suoi risultati sono tuttavia molto interessanti, perché i miglioramenti rilevati nei più importanti marker surrogati della malattia da HIV - numero dei CD4 e viremia - sono un’ulteriore conferma dell’opportunità di cominciare la terapia il prima possibile.

Già si sapeva che l’infezione da HIV è caratterizzata da una rapida e consistente perdita dei CD4 del sangue periferico, seguita da una ripresa del numero dei CD4 spontanea, ma transitoria, la cui ampiezza e la cui durata non sono facili da stabilire. Dopo questo aumento transitorio, inizia un declino progressivo del numero dei CD4.
L’osservazione di questo andamento è ciò che ha fatto pensare che, dopo la fase acuta, possa esserci una piccola “finestra temporale di ripresa”, durante la quale il sistema immunitario può essere aiutato a recuperare se si somministra una potente terapia antiretrovirale.
Questa ipotesi sembra confermata dallo studio di Le, Ahuja e colleghi. Ritengono, infatti, di avere dimostrato che il 4° e il 12° mese dopo il contagio costituiscono dei momenti di svolta nella traiettoria compiuta dai CD4 e che questi momenti demarchino degli intervalli rilevanti dal punto di vista immunologico in questa traiettoria naturale.
Hanno infatti osservato che durante i primi 4 mesi si verifica un aumento spontaneo di circa 250 CD4 e questa è quella che hanno definito come una “finestra temporale di ripresa”, durante la quale somministrare la ART aiuta la ricostituzione immunologica.
Ma questa ripresa dei CD4 è transitoria e, quando questa finestra si chiude, i CD4 declinano in modo progressivo. Quindi l’intervallo fra il momento dell’infezione e il momento in cui i CD4 scendono sotto i 500 e l’inizio della ART si impone è piuttosto breve.

L’altro risultato interessante di questo studio è l’osservazione che chi ha iniziato la ART nei primi 4 mesi dell’infezione ha dimostrato di avere la più alta probabilità e il più rapido tasso di ripresa dei CD4.

L’inizio molto precoce della terapia dovrebbe ridurre quei fattori come la traslocazione microbica, l’attivazione immunitaria e il danno al tessuto linfoide che si sa che rendono più difficile la ripresa immunitaria. Dovrebbe inoltre promuovere lo sviluppo di risposte HIV-specifiche dei linfociti T-helper e dovrebbe limitare lo stabilirsi e l’espandersi dei reservoir virali latenti.

Una ripresa dei CD4 dovrebbe portare sostanzialmente due benefici: anzitutto, i CD4 svolgono un ruolo centrale nel mantenimento dellla struttura del tessuto linfoide, che è necessaria per la loro stessa omeostasi e la loro proliferazione. Quindi, rinforzare la risalita del numero dei CD4 sfruttando la “finestra temporale di ripresa” potrebbe consentire di risolvere rapidamente il danno al tessuto linfoide causato dall’HIV e quindi di giungere a una migliore ricostituzione immunitaria.



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Re: ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reserv

Messaggio da Dora » martedì 5 marzo 2013, 15:18

Keith Alcorn ha raccolto per NAM gli interessanti dati portati al CROI da Jintanat Ananworanich e da Katherine Luzuriaga sul trattamento antiretrovirale in fase PRECOCISSIMA e sulla sua efficacia nel limitare le dimensioni del reservoir, che confermano come le persone che entrano in ART proprio agli inizi dell'infezione siano degli eccellenti candidati per i tentativi di eradicazione.


Very early antiretroviral treatment limits the size of HIV reservoir

Very early antiretroviral treatment may limit the size of the HIV reservoir in adults and children, according to studies presented on 4 March at the 20th Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections (CROI) in Atlanta.
Other research presented at the meeting suggests that too little is known about either the size or the cell types that constitute the HIV reservoir to be confident that early assessments will be a reliable guide to the potential for viral eradication.


Background: the problem of HIV persistence in the human body

The primary obstacle to the elimination of HIV from the human body is the ability of the virus to persist in a latent form within CD4 cells that are in a resting state. These are cells which become infected with HIV and where the virus is incorporated into the cell’s genetic material (genome), after which the virus remains in a latent state. A variety of triggers can cause the cell to become activated and to begin producing virus, but the virus may remain integrated within the cell, undetected by the immune system, for many years. It is only when the virus begins to reproduce that the cell’s surface will display proteins that cause the immune system to target that cell for destruction.

Latently infected cells form a 'reservoir' of cells that are constantly being activated to produce HIV, which then goes on to establish latent infections in other cells. In people taking antiretroviral therapy, that process of activation causes a very low level of viral replication, below the limits of detection of all but the most sensitive experimental tests, because antiretroviral therapy shuts down this re-seeding process. Yet, only a very small number of latently infected cells are needed in order to establish a detectable level of virus production within days of halting antiretroviral therapy. For this reason, studies of treatment interruption have consistently shown that viral load rebounds to a level corresponding to the pre-treatment peak within a few weeks of stopping treatment.

It has been proposed previously that very early antiretroviral treatment in infants might offer the best prospect of HIV elimination using antiretroviral therapy alone. This is because antiretroviral therapy started early enough, in an infant infected with HIV during delivery, might have the potential to restrict the establishment of long-lasting reservoirs of latently infected cells. One case report also presented at this conference, of an infant with confirmed infection treated from 31 hours after delivery, and now off treatment for one year with no signs of viral replication, offers proof of concept. Further studies are planned to test whether this 'functional cure' can be replicated in other infants.

Limiting the size of the reservoir by early treatment

Another question for future HIV eradication studies will be: does a smaller reservoir of latently infected cells afford a better prospect of curing HIV infection, and if so, is it possible to limit the size of the reservoir by treating a person very soon after HIV infection?

Researchers in Thailand have been attempting to do this, by offering a process of very fast diagnosis and treatment initiation, in a setting with a high incidence of HIV infection. People who presented to the Thai Red Cross HIV testing centre in Bangkok were tested for HIV RNA, p24 antigen and HIV antibodies, using a third-generation enzyme-linked immunosorbent assay (EIA).

Diagnostics were completed within a median of three days, after which people diagnosed with HIV were asked if they would be willing to undergo leukopheresis for CD4 cell counting and enumeration of total and integrated HIV DNA in peripheral blood mononuclear cells (PBMCs). (Integrated HIV DNA indicates that, in theory, a cell would be capable of producing replication-competent virus in the future.) Participants were also asked if they would be willing to undergo sigmoid colon sampling in order to obtain samples from any potential HIV reservoirs in the gut. A median of two days after diagnosis, subjects started antiretroviral therapy with a regimen that included raltegravir in order to achieve very rapid viral load reduction.

The study recruited 75 participants, 91% of them men who have sex with men. Data were presented on 68 subjects for whom quantification of HIV DNA had taken place. These included 21 subjects in whom sigmoid biopsies had also been carried out. Just over one-third (37%) were in Feibig 1 of acute HIV infection, that is to say, they were HIV RNA positive but negative for p24 antigen and negative for HIV antibody by third-generation ELISA test. The median time between enrolment and exposure was 15 days in this sub-set of patients, said Dr Jintanat Ananworanich.

Patients in this sub-set had the lowest HIV DNA levels prior to treatment; 92% had undetectable integrated HIV DNA in PBMCs and 88% had undetectable integrated HIV DNA in the sigmoid colon, indicating that a reservoir of detectable infected cells had not yet been established (although it should be noted that this study sampled a limited number of cell types).

Patients in Feibig 2 (HIV RNA+, p24+) and Feibig 3 (ELISA+, western blot negative) stages of acute infection showed substantial reductions in HIV DNA within 12 weeks of starting antiretroviral treatment, and reached undetectable levels of integrated HIV DNA in PBMCs by week 24. Seven out of ten patients (3 Feibig 1 and 4 Feibig 2/3 patients) who underwent sigmoid biopsy, and who had detectable integrated HIV DNA at baseline, had undetectable HIV DNA by week 24 of treatment.

Analysis of CD4 central memory cells (the key reservoir for infection) showed very limited infection compared to transitional and effector memory CD4 cells at baseline, and this trend persisted after 24 weeks of treatment.

Patients treated early in acute infection, whether in stages Feibig 1 or 3, showed similar characteristics to 'elite' HIV controllers – a small or undetectable reservoir of HIV DNA, and a bias towards infection of transitional and effector cells rather than central memory cells, concluded Dr Ananworanich. These patients may be ideal candidates for future cure studies which look at the use of therapeutic vaccines in combination with agents that can deplete the HIV reservoir. In due course, treatment interruptions might also be attempted in order to determine whether any of these patients is functionally cured, and if so, what might be the immunologic correlates of a functional cure.

Dr Katherine Luzuriaga also presented data on the characteristics of the HIV reservoir after early treatment, this time in five adolescents with a median age of 16 who had received antiretroviral treatment since soon after birth (median 2 months of age). It was impossible to isolate replication-competent HIV DNA from any of these patients, although proviral DNA was detectable at a low level, and they had no HIV-specific antibody or CD8+ T-cell responses. In comparison, four age-matched young people who had begun HIV treatment in later childhood, and who had sustained undetectable viral load ever since, had detectable HIV RNA (8 copies/ml) by ultrasensitive assay and HIV antibody and CD8+ T-cell responses to a broad range of HIV genes, indicating ongoing replication.

Dr Luzuriaga’s group suggested that these young people, like the acutely infected Thai patients described by Dr Ananworanich, could be “prime candidates for interventions to achieve functional cure or eradication.”

In contrast, data presented by collaborators from the University of Pittsburgh and Harvard University, show that in adults treated with fully suppressive antiretroviral therapy for at least ten years, but commenced in advanced HIV disease (median CD4 cell count 193 cells/mm3), HIV DNA declines during treatment, but remains detectable after ten years, with higher levels correlated with older age and higher baseline viral load. These findings suggest a much more well-established reservoir of HIV infection in chronically infected adults.

Where is the reservoir, and what's in it?

Further grounds for caution regarding the stubborn persistence of the HIV reservoir came in a series of presentations from research groups that had evaluated a variety of cell types, and also questioned the assays used to assess reservoir size, and come up with some dispiriting assessments of the complexity and size of the reservoir.

Maria Buzon and colleagues at the Ragon Institute, Harvard University, identified a pool of long-lasting cells, memory T-cell stem cells, which harbour high levels of HIV DNA despite long-term antiretroviral treatment, and which become more important as a proportion of all infected cells as time goes on. Natalia Soriano-Sorabia of University of North Caroline, Chapel Hill, identified gamma-delta T-cells as an important and hitherto unmeasured reservoir.

Another problematic issue for HIV eradication is to determine what to measure. Assays which seek to measure replication-competent HIV in the laboratory from cells harvested from patients – viral outgrowth – may under-count cells containing HIV DNA that might only be induced to replicate in certain restricted circumstances.

Ya-Chi Ho of Johns Hopkins University, Baltimore, described an analysis of the gene sequences of HIV proviruses that could not be induced to replicate after one round of activation in a viral outgrowth assay. 88% were defective, but 12% had an intact viral genome, suggesting that they might have the potential to infect other cells if they could be triggered to replicate. This finding led Ho and colleagues to estimate that the average latent reservoir could be 48 times larger than currently estimated.



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Re: ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reserv

Messaggio da skydrake » martedì 5 marzo 2013, 22:23

Al CROI 2013 si é affrontato il tema del trattamento precoce nei pazienti neoinfetti per ridurre i reservoirs:
http://www.aidsmap.com/Very-early-antir ... e/2587303/

Durante sessione di lavoro sono stati presentati diversi studi interessanti, in particolare uno tenutosi a Bankgok nel quale 75 volontari neoinfetti (alcuni dei quali ancora negativi con ai test ELISA di III generazione) sono entrati in terapia antiretrovirale con raltegravir per 24 settimane. Lo studio è ancora in corso, tuttavia nei mesi successivi al termine del periodo di terapia i pazienti mostravano una quantita di reservoirs nonché una viremia comparabile a quelle proprie di élite controllers.

http://www.retroconference.org/2013b/Ab ... /46426.htm



rewind
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Re: ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reserv

Messaggio da rewind » mercoledì 6 marzo 2013, 19:10

skydrake ha scritto:i pazienti mostravano una quantita di reservoirs nonché una viremia comparabile a quelle proprie di élite controllers.
in che modo "misurano" i reservoirs? è una stima approssimativa?
Inoltre mi chiedo per quale ragione nessuno da importanza ai "sottogruppi" (genotipi) del virus? Possibile che non esiste nessuna differenza (come negli HCV) nella risposta ad un trattamento?
Mi sembra che l'unico parametro preso in considerazione per il reclutamento dei paziente sia stata infezione precoce....possibile?



skydrake
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Re: ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reserv

Messaggio da skydrake » mercoledì 6 marzo 2013, 19:58

Andiamo in ordine:
rewind ha scritto: in che modo "misurano" i reservoirs? è una stima approssimativa?
Si é una stima approssimativa. Proprio in questo CROI, attualmente in corso, si sono proposte metodologie diverse con risultati molto diversi. L'importante però non é il numero dei reservoirs in sé, ma che il metodo per stimarli sia lo stesso per i soggetti considerati e per il gruppo di controllo (o i gruppi di raffronto), nonché che il metodo scelto, indipendentemente se sovrastimi o sottostimi i reservoirs reali, purché non sia influenzato da altri parametri non considerati.

In questo studio la parte relativa alla stima dei reservoirs é questa:

Diagnostics were completed within a median of three days, after which people diagnosed with HIV were asked if they would be willing to undergo leukopheresis for CD4 cell counting and enumeration of total and integrated HIV DNA in peripheral blood mononuclear cells (PBMCs). (Integrated HIV DNA indicates that, in theory, a cell would be capable of producing replication-competent virus in the future.) Participants were also asked if they would be willing to undergo sigmoid colon sampling in order to obtain samples from any potential HIV reservoirs in the gut.

Quindi, riassumendo, gli hanno fatto uma leucoaferesi per la conta dei CD4 e la completa enumerazione di tutto il DNA virale integrato (nota bene, il DNA, non l'RNA) dei PBMC nel sangue periferico (quindi linfociti, monociti ecc., ma sopratutto macrofagi, con tutti i relativi problemi per estrarli).
Poi gli hanno fatto persino delle biopsie nell'intestino.



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Re: ARV in fase acuta: cura funzionale? diminuisce il reserv

Messaggio da skydrake » mercoledì 6 marzo 2013, 20:58

rewind ha scritto:Inoltre mi chiedo per quale ragione nessuno da importanza ai "sottogruppi" (genotipi) del virus? Possibile che non esiste nessuna differenza (come negli HCV) nella risposta ad un trattamento?
Nell'HCV il genotipo é importantissimo. Viceversa, nell'HIV si é visto che, anche all'interno di gruppi e sottogruppi molto comuni, ci possono essere delle piccole mutazioni veramente difficili da trattare. Certamente, chi si prende un HIV-1 gruppo M tipo E si troverà a dover affrontare problemi grossi, come chi si prende un HCV genotipo 1a. Viceversa, chi si prende un HCV genotipo 3 potrà avere abbastanza garanzie per il suo trattamento, mentre chi si prende un comunissimo HIV-1, gruppo M tipo A non é detto che avrà comunque vita facile. Non mi sto riferendo solo alle resistenze, ma anche fitness del virus e a certe capacitá di elusione ai CD8 che certi ceppi sembrano sviluppare. In un certo senso con l'HIV non si possono fare previsioni positive, ma solo negative: si puo' capire con piú facilita' se uno ha un ceppo HIV bástardo, ma se invece se si vuole sapere se stará buono buono, allora non lo si può classificare solo per gruppi, ma va sequenziato tutto. Considerato poi che la progressione della malattia é fortissimamente influenzata non solo dal ceppo, ma anche dalle particolarità del sistema immunitario del paziente, spesso, una volta constatate le resistenze, si rinuncia e si preferisce considerare ogni paziente come un caso a se stante.



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